Dal Jazz non si torna indietro

Intervista a Pasquale Mega e Camillo Pace alla ricerca del significato della musica (jazz)

pubblicata su Extramagazine n. 6 del 13/02/2009


Per essere un lunedì mattina freddo e piovigginoso di febbraio, l’atmosfera sembrava più adatta al blues che al jazz. Pasquale Mega e Camillo Pace li incontriamo per parlare di musica, di “Coloriade”, dell’album che Pasquale ha scritto e che è stato pubblicato nell’estate del 2007 dall’etichetta Dodicilune di Lecce. La conversazione ha preso fin dall’inizio una piega incontrollabile, dato che il leit-motiv è stata la ricerca di una definizione appropriata del concetto di jazz. Tra una domanda e il caffè e la risposta e la foto e un’altra domanda, a qualcuno veniva in mente l’intuizione, il lampo di genio, la metafora migliore per spiegare cosa fosse quel tipo di musica che suona così, jazz.

Perché Coloriade?

Mega – Così, è stata una cosa improvvisa, un’intuizione di un attimo. Non significa nulla, non esiste in nessuna lingua al mondo, ma riesce bene a dare un’idea dell’album. I brani sono stati composti in un lungo arco di tempo, non è stata un’idea unica. Il punto centrale è la presenza degli archi, non consueti nelle formazioni jazz.

Pace – Pasquale è stato il primo in Puglia ad usarli. È stata un’intuizione che adesso viene spesso utilizzata da altri musicisti jazz pugliesi. Gli archi di solito sono usati nella musica classica e infatti Coloriade presenta degli incastri che rimandano molto alla musica classica.

Due generi apparentemente opposti, la classica rigidamente inquadrata in partiture e il jazz che offre tantissimo spazio alla libertà espressiva del musicista.

Pace – Invece non è per nulla così. La gente pensa che il jazz sia libertà assoluta, che sullo strumento si può fare quello che si vuole. Non è così, non è solo così. E poi anche nella classica si improvvisa: Bach, Mozart, Liszt e tanti altri improvvisavano.

Mega – Io per esempio non ascolto più jazz, ma quasi esclusivamente classica. Questi due generi hanno molto in comune, più di quanto si pensi. Sia uno che l’altro vengono insegnati al conservatorio, e molti giovani si avvicinano al jazz proprio nelle scuole di formazione classiche. Ora tutti i giovani jazzisti hanno un diploma e una preparazione tecnica molto buona. E in Puglia ce ne sono molti…

Pace – La Puglia sembra la culla del jazz…

Mega – Non solo, anche la Campania, la Basilicata…

Il meridione insomma. Vero è che l’arte migliore è figlia della crisi. Dove si ascolta buona musica in Puglia?

Ci sono alcuni locali, come il Ueffilo di Gioia del Colle o lo Zelig di Foggia…

E dove vi piacerebbe suonare?

Pace – In un teatro, sicuramente…

Mega – In un teatro, Coloriade dovrebbe essere rappresentato in teatro.

Se si pensa al jazz vengono in mente altre situazioni, locali fumosi, affollati, il teatro fa venire in mente altro, qualcosa di già scritto, provato, inquadrato…

Mega – Il jazz ha una storia secolare, nasce in una determinata parte del mondo e poi si diffonde, ma non rimane uguale a se stesso. L’errore è immaginare il jazz sempre uguale a se stesso, con quei suoni, quelli strumenti. Le sonorità dell’America anni trenta possiamo rifarle anche oggi, ma non avrebbe senso. In Europa si suona in maniera diversa, e in Italia si suona in maniera ancora diversa. Fino ad arrivare in Puglia, dove nelle composizioni dei musicisti si sente la mediterraneità. Ognuno ci mette del suo, fino a produrre qualcosa di originale, andare fuori dai canoni. Il jazzista deve avere la capacità di produrre progetti originali e la conoscenza di cosa è la percezione.

Pace – Il jazz è un modo di esprimersi: hai la possibilità di mettere tanto di te, di fare tuo quello che suoi, renderlo personale. Letto il tema del pezzo si può improvvisare. Su uno stesso tema il mio assolo sarà diverso da quello di un altro e diverso da uno mio stesso fatto prima o che farò dopo. È esprimere nel momento quello che si prova. Anche in studio si improvvisa e anche in quel momento deve esprimere quello che provi: immagina in studio chiuso con la cuffia…

Bruno Tommaso (contrabbassista e compositore, primo presidente dell’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz, ndr) scrive sulla copertina di Coloriade: “Alle sue spalle vi è un cammino di civiltà, di sete di sapere, di potente voglia di sgombrare il campo dai soliti luoghi comuni che vogliono un mezzogiorno immobile e chiuso”. Il ritratto di un filosofo più che di un musicista…

Mega – Sapere che Bruno Tommaso dica queste cose di me, non può che rendermi felice. È la storia della musica moderna in Italia. Ma la cosa che più mi gratifica e che mi abbia dato del gentiluomo.

Parliamo di Antiphonae, una bellissima rassegna di jazz, sia concertistica che cinematografica, nata a Martina Franca e poi costretta, per la mancanza di appoggio da parte delle istituzioni, a spostarsi a Locorotondo. È Martina Franca il luogo comune di cui parla Tommaso?

Mega – Quanti anni sono passati dalla prima volta? Dieci forse…

Pace – Immagina che quando ci fu la prima edizione di Antiphonae io ancora non sapevo suonare.

Mega – Forse siamo solo in un brutto periodo…

Pace – Ci vorrebbe più dialogo con le istituzioni.

Mega – Posso dire che Antiphonae ha portato il jazz a Martina. Ma non è detto che a Martina prima o poi non torni. Il problema è che per fare cultura ci vogliono i soldi…

Pace – Forse se non si spendessero per le solite cose. Ma non dipende solo dal comune. Non ci sono locali adatti, e mancano i direttori artistici dei locali. Prendi questo posto (37 Music ArtCafè, ndr) che ha un buon direttore artistico e fa delle buone cose. Ci vorrebbe una cosa simile per il jazz.

Argomento su cui preferite non sbottonarvi, comprendo. Torniamo alla musica. Coloriade: che progetto all’interno dell’album?

Mega –Gli album si fanno per mettere un punto fermo alla propria storia creativa, affinchè diventino biglietti da visita. Grazie a Coloriade siamo andati a suonare all’Arezzo Jazz Winter e al Montemarciano Jazz. I brani rappresentano momenti diversi della mia carriera, non sono concatenati, non c’è un progetto unico per l’album, è molto eterogeneo.

Pace – Sembra che siano stanze con porte che si aprono con altre porte. I pezzi sono molto orecchiabili, non hanno qualche particolare difficoltà tecnica. Ma il progetto che ne è venuto fuori è eccezionale. Ricordo ancora il momento delle registrazioni: sentire Marco Tamburini (trombettista, colonna portante della musica di Jovanotti, ndr) in cuffia, dal vivo, e pensare che fino a poco tempo fa lo ascoltavi in Piazza Crispi, con la cassetta nello stereo della macchina e ora suona con te è un’esperienza fantastica.

Mega – Devo riconoscere che suonare con Javier Girotto e Marco Tamburini è stato un onore per me…

Cosa prevede il futuro?

Mega – Per ora sto suonando con un chitarrista di Matera (“dì che sono di Matera, ci tengo molto”) Dino Plasmati, in un gruppo chiamato Jazz Collective, dove siamo tutti materani. Poi sto suonando insieme alla LJP, la Lucanian Jazz Project Big Band, un progetto nato per ospitare grossi nomi: abbiamo fatto due concerti con Michael Rosen. Anche in questa formazione siamo quasi tutti materani, con un martinese: Claudio Chiarelli.

Pace – Io invece ho appena finito di suonare in tre dischi, sto scrivendo il mio secondo (il primo è stato” Introspezione di un viaggio”, ndr) e sto collaborando con diversi musicisti. In cantiere c’è il progetto di un omaggio a Bob Marley con Connie Valentini, un musicista martinese, e poi un disco con il pianista di Alex Britti e di Meg.

Mega – Ormai Camillo è uno dei contrabbassisti più richiesti del meridione…

Pace – E Pasquale è il mio padre musicale…

Ma cos’è il jazz alla fine?

Pace – Il jazz è l’idea all’interno di un’idea.

Mega – Bella definizione, mi piace. Il jazz è in primo luogo l’originalità del progetto. Io l’ho incontrato per caso: un giorno sentii il Köln Concert di Keith Jarrett. Ascoltavo molta musica classica in quel periodo e pensavo che il disco fosse un’opera per pianoforte. Quando scoprii che era tutta improvvisazione rimasi folgorato. Lì ho scoperto il jazz e quando lo incontri davvero non si torna indietro.

Caro Babbo Natale…

La letterina a Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

mi chiamo Massimiliano e sono un giovane abitante di Martina Franca. Volevo dirti che quest’anno non sono sempre stato buono, qualche volta mi sono incazzato, e qualche volta mi sono comportato male, ma ho sempre cercato di essere bravo e buono. Quest’anno, caro Babbo Natale, ho pagato tutte le tasse, alcune aumentate del 50 percento, come quella sulla spazzatura, ma non perché ho ingrandito la mia casa, ma perché il Comune si è beccato una bella multa e dobbiamo pagarla tutti. I maligni dicono che è colpa degli amministratori che, nonostante le sentenze dei giudici e le leggi della Regione, non fanno una nuova gara d’appalto per lo smaltimento. Io credo che lo facciano perché hanno a cuore le sorti dei dipendenti della Tradeco.

Caro Babbo Natale, quest’anno qualche volta mi sono lasciato andare a brevi turpiloqui. Quando ero nel traffico soprattutto, perché mi scocciavo di metterci mezz’ora da Cristo Re all’Ospedale. Immagino che scorazzando tra le stelle con le tue renne non hai problemi di doppie file che intralciano il passaggio, di cerebrolesi che ti guardano sorridendo sorseggiando caffè mentre la loro macchina blocca la tua, di soste espressioniste al centro strada, di signore troppo impellicciate per capire che lo spazio vuoto tra due auto è un parcheggio dove poter lasciare il loro ingombrante inutile Suv. Mi sto innervosendo, ma mentre ti scrivo, caro Babbo Natale, rivivo le scene che accadono quotidiane.

È stato un anno allegro, quasi, tranne che per due miei amici che si sono sposati e non riescono a trovar casa, che ci vorrebbero un po’ di mutui subprime anche qui da noi. Lo sai che una casa arriva a costare 3600 euro al metro? Sono sicuro che da voi in Lapponia non è così. Questo fatto mi ha intristito e se mi intristisco mi arrabbio un po’, e me la prendo con gli amministratori che, poveretti, sono troppo impegnati per pensare al piano regolatore.

È stato un anno molto intenso. Al giornale ci sono stati nuovi acquisti e tutti abbiamo un po’ acquisito esperienza. Ma la vita del cronista, sia esso di cronaca o di sport, di inchiesta o di politica, non è mai semplice e spesso, a causa dell’abitudine a leggere i fidi scribi, sembra che il lavoro fatto non valga nulla. Ma noi non ci arrendiamo e anzi ti chiedo che questo Natale mi porti un po’ di pazienza e di cortesia nei confronti di chi è re in paese ma già all’altezza di San Paolo conta come il due di briscola.

Vorrei la capacità di raccontare a tutti, senza la paura di non essere capito.

Sotto l’albero la mattina del 25 spero di trovare splendente lo spirito cristiano dell’accoglienza, che gli abiti talari non indichino solo arringhe vigorose ai fedeli intruppati ma scarpe sporche di fango e mani che abbiano toccato la povertà.

Vorrei aprire un pacco e trovare il modo perché la gente non veda nei ragazzi dell’Hotel dell’Erba dei concorrenti nella miseria ma dei fratelli vittime anche loro degli stessi meccanismi che divide il mondo in sfruttati e sfruttatori.

Anche se non sono stato un esempio di bontà, ti chiedo, Babbo Natale, di portarmi un paio di forbici magiche per tagliare i fili tra i vertici delle piramidi di potere che impoveriscono le nostre terre e le nostre menti e le persone normali, laboriose, oneste, costrette ogni giorno ad inchinarsi perché ci fanno credere che i nostri diritti non sono nient’altro che privilegi.

Portami una gara d’appalto per i rifiuti, affinchè anche a Martina si possa fare un po’ di raccolta differenziata. Regalami un’idea per spiegare agli imprenditori della zona industriale che non possono usare i cassonetti normali per gettare i rifiuti delle loro imprese, perché altrimenti a pagare siamo noi cittadini. Regalami un po’ di buon senso da mettere sotto il tergicristallo delle macchine parcheggiate in doppia fila. Regalami un vigile personale che multi chi non sa guidare.

Babbo Natale, se c’è spazio nel tuo sacco ti chiedo un chilo di saggezza, da donare ai nostri amministratori, affinchè capiscano che governare non significa emettere ordinanze contro chi sputa o emette flatulenze, ma timonare una nave che non deve affondare.

Vorrei un po’ d’ordine, per favore, nel nostro Ufficio Tecnico, perché mi dispiace che spesso si perdano le carte.

Vorrei un po’ di sicurezza, se è possibile, vorrei poter sognare una prospettiva e un futuro e non ringraziare di essere arrivato alla fine del mese.

Per ultimo, caro Babbo Natale, ti chiedo di trovarmi quella scatola di giocattoli che quand’ero bambino mio padre mi comprò dal negozio sotto casa, quella dove c’erano le casette in plastica colorate, da assemblare. Quella scatola che stava in vetrina in quel negozio di giocattoli che ora non c’è più.

Problema casa: una soluzione sarebbe cercare a Crispiano

Una (non troppo) fantasiosa ricostruzione del perché a Martina è impossibile trovar casa.

L’otto dicembre scorso il noto blog Liberamartina, riportava per primo la storia del signor Cosimo P. disoccupato e sfrattato, costretto a dormire nella villa comunale. Senza lavoro e senza soldi quindi, impossibilitato a pagare l’affitto, per alcune notti si è adattato a dormire su una panchina della villa.

Nonostante questa possa sembrare l’ennesima storia di povertà, l’ennesimo caso umano su cui versare un po’ di lacrime, una situazione del genere ci offre lo spunto per una riflessione sul tema case.

Secondo le statistiche dell’Istat, i nuclei famigliari sono circa diciottomila e il totale delle abitazioni risulta quasi il doppio, circa trentamila. Il dato quindi ci dice che le case sono più delle famiglie, anzi che c’è una casa ogni due persone. L’offerta quindi supera la domanda. Secondo le leggi di mercato in una situazione del genere i prezzi dovrebbero calare, permettendo a tutti di acquistare. Invece non è così, i prezzi al metro quadro a Martina sono tra i più alti in provincia e sono un reale ostacolo all’acquisto. Questo perché gli imprenditori edili sembra abbiano fatto cartello e, in barba alla libera concorrenza, fanno il bello e il cattivo tempo. A questo si aggiunge un piano regolatore che ha esaurito da un bel pezzo le sue funzioni, avendo la veneranda età di venticinque anni. Le zone edificabili sono state edificate e si costruisce solo in deroga al piano stesso. Un nuovo Piano Urbanistico permetterebbe sia di costruire, sia di abbassare i prezzi, indicando un livello massimo di canoni d’affitto e un tetto al rapporto prezzo/metratura. Da questo punto di vista, il Consiglio Comunale, non solo quello tutt’ora in carica, ha fatto sempre orecchie da mercante, facendo dubitare i più maligni di commistioni tra la classe politica dirigente e i (pochi) imprenditori che riescono ancora ad avere licenze edilizie.

Sebbene sia difficile vendere (in realtà è difficile acquistare), il mattone a Martina è un’attività redditizia, altrimenti non si spiegherebbero i vari escamotage per scavare fondamenta e far crescere condomini. L’episodio dell’articolo 51 è emblematico: durante la crisi politica a ridosso del 2000, il Comune fu retto dal commissario prefettizio Sessa che, andando ben oltre i suoi compiti, autorizzò una maxivariante al piano regolatore che prevedeva la costruzione di ben 430 appartamenti sparsi a macchia di leopardo su tutto il territorio comunale, in particolare dalle parti del Pergolo e di via Massafra. Ma la procura intervenne a bloccare tutti i procedimenti: non solo non era nei compiti del commissario approvare una cosa del genere, ma l’elezione del sindaco ci sarebbe stata di lì a pochissimi giorni, se c’era davvero necessità, sarebbe bastato aspettare. Inoltre anche l’uso dell’art. 51 della legge sull’edilizia è stato improprio: la legge prevede che, in caso di necessità, ci può essere una deroga al piano regolatore per interventi di carattere pubblico, mentre l’iniziativa di Sessa e compari era indirizzata verso i privati. L’affare colossale è stato bloccato, e la procura ha iniziato un’inchiesta coinvolgendo otto persone tra imprenditori e funzionari comunali, compreso Sessa. Una storia che è addirittura approdata in Parlamento.

Questo accade tra il 2002 e il 2003.

Nel frattempo nessuno si è mosso per quanto riguarda il Pug, a parte qualche dichiarazione estemporanea. Il problema dell’accesso alla casa però rimane alto, tanto che lo Iacp, l’Istituto per le case popolari, presenta un progetto per la costruzione di una ventina di appartamenti finanziati dalla Regione. Quasi due milioni di euro per dare una boccata di ossigeno alle tante famiglie che non possono permettersi le cifre esose dei proprietari di casa. Tutto però si risolve in una bolla si sapone. Il progetto, presentato al comune, si perde tra le varie carte dell’Ufficio Tecnico, nonostante le promesse che il sindaco Palazzo ha fatto ai funzionari dello Iacp. Il tempo passa e la Regione decide di intervenire, dirottando i fondi per le nuove case popolari verso Manduria.

Questa disattenzione dei funzionari comunali e dei politici amministratori potrebbe costare cara alla città, perché nonostante le lunghe liste di famiglie in attesa di alloggio, l’occasione propizia si è persa. Sennonché spunta fuori dal cilindro la cosiddetta Legge 12, varata dalla Regione la scorsa estate, che prevede la possibilità di andare in deroga al piano regolatore e rendere edilizie alcune aree, in particolare le zone E, le aree dove sarebbero previste solo villette, per intenderci. La legge 12 si riferisce ai comuni con elevata tensione abitativa e prevede che i proprietari delle aree suddette possano costruire in deroga al piano regolatore, sia rispetto alle dimensioni sia rispetto all’indice di abitabilità.

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L’unico obbligo è che siano rispettate le norme e i massimi d’affitto previsti dalla legge, trattandosi di edilizia economica convenzionata. Un privato, cioè, fa le veci del pubblico e ne rispetta i termini. Solo che invece di pagare l’affitto allo Stato, lo si paga al costruttore. La ghiottoneria della legge però sta nell’obbligare chi costruisce a donare il dieci per cento degli appartamenti al Comune, come se fosse una sorte di rimborso spese. Il Comune quindi avrebbe da assegnare alcuni alloggi alle famiglie che aspettano da tempo.

Se fossimo in una realtà degradata, tipo Palermo degli anni ottanta o novanta, e non in un paese civilissimo come Martina Franca, si potrebbe pensare che la “dimenticanza” del progetto dello Iacp sia stata voluta perché sono ancora in ballo i 430 appartamenti dell’articolo 51. Questo fatto potrebbe addirittura arrivare a bloccare la stesura di un nuovo piano regolatore, perché chi avrebbe dovuto costruire perde un investimento milionario, dato che tutti avrebbero la possibilità di edificare. Nel frattempo che si risolva l’inchiesta, piove dal cielo la legge 12, voluta dalla Barbanente per risolvere problemi reali, ma che a Martina (se non fosse la civilissima di cui siamo certi) risolverebbe i problemi di alcuni costruttori. Per verificarlo basta andare dalle parti di via Massafra e verificare se i terreni sono in vendita o sono già stati venduti e a che prezzo. Oltretutto, se non fossimo nella civilissima Martina, si potrebbe arrivare a pensare che gli appartamenti non solo sono un investimento sicuro ma possono anche servire in caso di elezioni come scambio o favore. Se su cento appartamenti, dieci sono del Comune, le famiglie a cui toccherà la fortuna di usufruirne saranno eternamente grati all’assessore che le ha scelte.

Questa lettura naturalmente va ben oltre i fatti, sono supposizioni fantasiose. Se il nuovo piano regolatore sta assumendo ormai le stesse caratteristiche del Messia per il popolo ebraico, che campa sperando di vederlo, è per necessità contingenti, importanti. Siamo sicuri che un Consiglio Comunale con un’alta percentuale di geometri e ingegneri e fratelli di geometri e cugini di ingegneri non avrebbe difficoltà a stilarlo. Se non lo fa è perché ci sono motivi gravissimi che noi cittadini non possiamo nemmeno immaginare. Per questo, caro signor Cosimo P. che cerchi casa, ti consigliamo di considerare Crispiano come valida alternativa.

Conversazione su Martina Franca con Mario Desiati: il dialetto, la provincia, le convenzioni e i film porno al Bellini

Intervista esclusiva con Mario Desiati (pubblicata su Extramagazine il 12/12/2008)

Si dice che non si ha una visione pertinente delle cose se non si è ad una distanza giusta. Non bisogna essere né troppo vicini né troppo lontani. È una regola che vale per qualsiasi cosa: la giusta distanza. Se si dovesse parlare di un luogo, una città, una realtà, l’opinione di un suo abitante non è oggettiva, perché è troppo vicino, com’è troppo lontano lo sguardo di un estraneo. La giusta distanza sarebbe un suo abitante che non abita più. Mario Desiati incarna perfettamente la giusta distanza per parlare un po’ di Martina Franca, che è anche la protagonista del suo ultimo libro.

La prima cosa che si nota scorrendo le pagine de “Il paese delle spose infelici” è il massiccio uso del dialetto.

desiati Il dialetto del romanzo è un dialetto reinventato, molto più addolcito rispetto a quello della realtà, un dialetto simile a quello che parlavano i ragazzi martinesi degli anni Novanta. Ho aggiunto qualche vocale per renderlo più comprensibile a lettori e traduttori. Ma è così, spietato, duro, con un suo lato oscuro.

Cosa intendi per “lato oscuro”?

È come se questo dialetto, con le sue consonanti talmente chiuse, rifletta una parte del carattere chiuso dei martinesi.

Un carattere che è entrato nelle narrazioni popolari facendo paragonare i martinesi alla pietra con cui sono costruite le loro case. È possibile secondo te che una città possa avere un suo animo, tanto da influenzare le persone che vi abitano? Oppure, mettiamola in un modo più misterico, è possibile che ci sia una “maledizione” che grava su Martina e i martinesi?

È un’ipotesi suggestiva, ma Martina ha gli artigli come la Praga di Kafka, ti tiene stretto, se vai via ti graffia: quando vai via ti restano i segni addosso, nella testa, nel cuore e sul corpo. Sono ferite che fanno male soprattutto quando si torna, quando ci si rende conto dei cambiamenti, di cui chi ci sta dentro non ne percepisce la profondità.

E probabilmente non lo percepisce affatto. I protagonisti del libro, Veleno e Zazà (i protagonisti del romanzo, ndr ), cercano un riscatto. Un riscatto che è la felicità minuta, che consiste nel giocare in un campo d’erba, nell’odore di prato come quello del Tursi o dello Jacovone che verrà sentito una sola volta e ricordato per sempre.

Sembrerebbe poco…

Loro non sono ancora corrotti dal mondo circostante che gli obbliga a cercare altri tipi di felicità. Veleno e Zazà sognano nel calcio uno sfogo nel male di provincia, dove la vita sembra obbligarti a un certo percorso e simbolicamente uno di questi traguardi è il matrimonio. Percepire la diversità dal contesto senza che questa sia tollerata è allora un momento di squilibrio e infelicità. Il sudore e la rabbia che si mettono in campo prima e nel tifo dopo, è l’apparente via d’uscita del duo.

Una provincia che ti obbliga a seguire un determinato percorso: o accetti le convenzioni o quella è la porta.

C’è provincia e provincia: c’è anche una provincia a Roma e Milano che sono le uniche metropoli italiane, un luogo dove ci si conosce tutti e si seguono le stesse convenzioni d’un paese.

Se scendiamo invece nel caso che ci riguarda, è vero le convenzioni esistono, ma tutto sta a esserne coscienti e proprio il villaggio globale a volte bombarda con il consumismo che corrompe i valori sani della provincia, ossia lentezza, sguardo, solidarietà.

Nel libro traspare una sorta di “horror vacui”, che è un elemento comune ad alcuni scrittori meridionali, tipo Bodini. Una paura del vuoto che distorce la percezione, quasi. A cosa è dovuta secondo te?

Credo che nella periferia, nella provincia, si avverta di più questo horror vacui che forse è semplicemente un dare senso e corpo alla solitudine. Non è un orrore esistenziale la solitudine della provincia secondo me, ma una condizione, la soluzione è autenticità, vivere essendo se stessi, senza rinunce alla propria personalità.

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Passiamo ad un argomento più leggero. Parliamo del Bellini: un luogo storico della città, come anche tu sostieni nel tuo libro, che è stato abbattuto per fare appartamenti. Le voci di dissenso sono state

pochissime e nulli i risultati.

Il cinema Bellini, pur non essendo un vero monumento, è stato un feticcio della mia generazione. Il cinema proibito, metafora di una zona rossa, luogo impenetrabile. Gli anni delle locandine oscene con la gente che aspettava davanti al Bar Ducale il momento dell’arrivo del nuovo film, restano uno dei momenti più comici della presunta Martina bene degli anni Ottanta. Tutti si ritrovavano davanti al Bellini per sbaglio come quando tutti guardavano il film osè su AT6 per sbaglio, salvo poi essere dettagliati nella descrizione delle scene. Insomma essere bambini a Martina è stato molto bello e divertente anche per quel fantastico “equivoco” che era un cinema porno nel centro pulsante della città.

Misure anti-crisi: se i provvedimenti non saranno strutturali, la crisi sarà irreversibile

La situazione delle aziende tessili a Martina Franca sta assumendo i caratteri di una tragedia. Il comparto che, per decenni, è stato quello trainante di tutta l’economia martinese, sta subendo attacchi tanto forti che non è improbabile che nel giro di poco tempo possa del tutto sparire. Dal 2003 in poi i lavoratori sono diminuiti del 50 percento e da 350 aziende ne sono rimaste meno della metà. Solo quest’anno i numeri sono impressionanti: 277 operai hanno perso il lavoro, 240 sono in cassa integrazione straordinaria per crisi che, se non dovessero attuarsi provvedimenti che rilancino l’economia del settore, entro il 2009 si aggiungeranno ai primi. A questi dati bisogna aggiungere che il numero di settimane di cassa integrazione ordinaria quest’anno è cresciuto esponenzialmente. E questo è solo un dato parziale, perchè riguarda solo i lavoratori che si rivolgono alla Filtea.

Il periodo nero che sta investendo questo settore è la somma di due crisi diverse. La prima viene da lontano, da quando la maggior parte delle aziende hanno preferito delocalizzare (in particolare in Romania e in Cina) la produzione, alla ricerca di un sempre minore costo del lavoro. La seconda è la crisi finanziaria attuale, che chiude i rubinetti del credito alle imprese, bloccando i questo modo i pagamenti ai lavoratori e non solo, dato che l’accesso al credito rappresenta una delle necessità principali per lo sviluppo di un’impresa, anche in termini di investimento.

La differenza tra la crisi presente e quelle passate, è che questa ha assunto il carattere di definitività: se una volta i lavoratori potevano sperare di essere reimmessi nel mercato del lavoro, perchè le crisi sono cicliche, adesso, una volta licenziati, sarà impossibile essere riassunti.

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I provvedimenti anti-crisi messi in atto dal Governo di cui si sta discutendo sono insufficienti. Non basta mettere un tampone a quello che sta accadendo ora, ma serve anche mettere in campo strategie e risorse per permettere a questo settore di risollevarsi passato questo brutto momento. È necessario che gli ammortizzatori sociali siano applicati anche ai casi non previsti dalla legge, come le ditte con meno di 15 dipendenti e tutti coloro che hanno un contratto temporaneo. Nella crisi globale è infatti necessario tutelare tutte le competenze, che non sono solo espresse dall’occupazione a tempo indeterminato, in modo da non destrutturare le imprese e per reagire alla crisi dei mercati.

È necessario sottolineare anche che c’è chi potrebbe cavalcare queste gravi situazioni, simulando operazioni di cessata attività, smembrando le società per poi affidarle magari a prestanome. Ciò significa che l’Inps paga i debiti contratti dall’azienda verso i lavoratori e le agevolazioni previste per le nuove imprese. Questo è un modo per ottenere scorrettamente vantaggi competitivi a discapito delle aziende che decidono di operare nella legalità.

Giuseppe Massafra (segretario generale Filtea Cgil Taranto)

a cura di Massimiliano Martucci

MISERIE ALL’OMBRA DEL BAROCCO

DOSSIER POVERTÀ A MARTINA FRANCA 1: i numeri della crisi

Abbiamo cercato di ricostruire il problema povertà a Martina, partendo dai dati dell’Istat pubblicati all’inizio del mese.

Chi sono e quanti sono i poveri a Martina

In un periodo in cui si parla ripetutamente di crisi, crolli e povertà, ad essere inflazionati non sono solo i bilanci pubblici di tutto il globo, ma anche le parole per descrivere la situazione. Crisi è una parola che viene usata spesso in tutte le salse possibili, tanto da perdere quasi qualsiasi collegamento con la realtà che dovrebbe descrivere e non avere più quel valore ammonitorio che dovrebbe esprimere.

Abbiamo provato a descrivere quello che significa crisi analizzando la situazione di Martina Franca.

Il dato da cui partire è la rilevazione fatta dall’Istat all’inizio di novembre che riferisce di un’Italia in cui i poveri sono più del dodici per cento della popolazione. Relativamente poveri, dato il calcolo si basa su quanto una famiglia spende in un mese: se è composta da due persone e spende meno di 986 euro, allora è una famiglia in povertà relativa, perché, secondo la statistica, la spesa è indicativa del reddito.

La situazione del meridione è peggiore statisticamente rispetto al quadro nazionale. Secondo i dati dell’Istat, la percentuale di poveri è del 22 per cento di media, con picchi in Basilicata e in Sicilia.

Da dove viene la povertà: l’esempio del comparto tessile

Ci sono due tipi fondamentali di reddito: quello diretto e quello indiretto. Il primo è dato dallo stipendio mensile, che fa entrare in famiglia liquidità, e poi c’è il reddito indiretto che è dato dai servizi che lo Stato garantisce alle famiglie e per cui si pagano le tasse. Sono la scuola e la sanità per esempio. L’esistenza di una persona è garantita dall’interazione di questi due tipi di reddito.

Il reddito diretto è dato dal lavoro e il primo senza il secondo è impossibile. È notorio che il tasso di disoccupazione al sud sia più elevato e più elevati sono i numeri riguardo il precariato e il lavoro cosidetto grigio (quello per cui il salario percepito non corrisponde a quello segnato nella busta paga). Secondo le statistiche il tasso di disoccupazione in provincia di Taranto nel 2007 è del 10 per cento, con un percentuale doppia delle donne rispetto agli uomini (questi sono sull’8% mentre le donne si attestano intorno al 16%). Secondo il Centro per l’Impiego di Taranto, a su sedicimila persone iscritte all’Ufficio impiego di Martina, il 33 per cento di esse è disoccupato. Ma non è una percentuale esaustiva, dato che non tutte le persone si rivolgono a questo servizio se sono in cerca di occupazione.

cammelli_092 Per capire meglio la questione possiamo prendere ad esempio un settore specifico dell’economia martinese: il tessile. Per anni questo comparto è stato considerato quello trainante di tutta l’economia martinese, ma ultimamente sta attraversando una crisi molto pesante, anzi due, considerando che la difficoltà di questo reparto si sta incrociando alla crisi strutturale dell’economia mondiale. In parole povere, negli ultimi tempi un settore che stava perdendo commesse a causa dello spostamento della produzione verso la Cina o i posti dove il lavoro costa meno, ma sopravviveva grazie alle commesse che arrivavano dalle ditte più grosse. Per lavorare, le confezioni chiedevano anticipi alle banche per poter pagare gli stipendi che poi rimborsavano una volta ottenuto il pagamento. Adesso le banche hanno chiuso i rubinetti e i lavoratori sono in mezzo alla strada. Secondo Giuseppe Massafra, della Filtea CGIL, non è ancora possibile stabilire l’entità di quello che accadrà nel futuro, i numeri sono destinati sicuramente a salire (è emblematico che, mentre facevamo l’intervista, abbia avuto una telefonata che gli annunciava il licenziamento di altri trentacinque lavoratori). È necessario, secondo lui, che le autorità prendano atto della tragedia e studino dei provvedimenti adeguati perché la cassa integrazione straordinaria dura solo un anno. E poi c’è la questione del Distretto regionale della moda, la cui sede è Martina. La cosa è diventata ufficiale da poco, e sarebbe paradossale che nel momento in cui viene riconosciuto il ruolo fondamentale delle manifatture martinesi, queste chiudono.

I numeri di Martina Franca

I servizi sociali di Martina offrono alle famiglie particolarmente indigenti, un sussidio minimo economico, una somma di denaro che permette loro di provvedere alle necessità primarie come la spesa o il pagamento delle bollette. Da 2005 ad oggi sono state fatte 674 domande, ma nell’ultimo anno sono aumentate notevolmente. A fronte delle 146 domande presentate l’anno scorso, quest’anno, fino a novembre, ci sono state 202 richieste.

Il sussidio rappresenta l’ultima spiaggia di chi è in difficoltà. Secondo l’assistente sociale Rapisardi che si occupa di questi servizi, la somma di denaro erogata dal comune una tantum è utile ma non è fondamentale nella gestione del problema, perché non è una soluzione: «È assistenzialismo – ci dice – ed è come dare un pesce all’affamato invece di insegnargli a pescare. I soldi messi a bilancio dall’amministrazione sono abbastanza, si dovrebbe puntare verso programmi che incidano in maniera più strutturale». E quando le chiediamo chi sono i poveri di Martina, ci risponde: «Non è possibile fare un quadro preciso della situazione, ma negli ultimi anni ho visto aumentare notevolmente le persone sole, uomini o donne di mezza età, che non hanno nessun tipo di reddito. Molto spesso la loro sopravvivenza si basava sulla pensione dei genitori e, venuti a mancare questi, non sanno più come andare avanti».

Una ulteriore misura per comprendere il fenomeno “povertà” a Martina, potrebbe essere quello del contributo integrativo del canone d’affitto. Sono soldi che la Regione affida ai comuni per aiutare le persone a fronteggiare le spese per la casa. Per accedere non bisogna superare il reddito di quattordici mila euro annui. L’ultimo dato disponibile è quello del 2007, in cui un totale di 503 famiglie hanno avuto accesso al contributo.

Quanto siamo poveri

Questi numeri possono raccontare la realtà fino ad un certo punto, dato che ad essi sarebbe necessario aggiungere tutto quello che è sommerso, tutti coloro che fanno la fila nelle sacrestie per avere un conforto non necessariamente spirituale. La Caritas di San Francesco prende in carico una media di venti casi all’anno, a cui fornisce pacchi viveri o piccole somme di denaro. Ma non è la norma a Martina: alcuni sacerdoti non sembrano essere molto sensibili nell’accoglienza dei poveri.

Un percezione migliore del fenomeno si ha girando per il mercato, oppure dando un’occhiata alle vie dello shopping cittadino e alla loro desolazione. La spirale è chiara: per garantirsi un maggior profitto si punta o sul precariato o sulla delocalizzazione dell’impresa. Si abbassa in questo modo il costo del lavoro ma contemporaneamente si inizia a licenziare o a pagare salari più bassi. Questo crea sacche di povertà che non potendo più garantire un numero costante di consumi provoca una crisi. I numeri martinesi sono preoccupanti, ma non sono ancora diventati allarmanti. Non dobbiamo però rattristarci: l’ottimismo è il profumo della crisi…

Non è un cassonetto ma un avvertimento…

Che il problema dei rifiuti sia presente anche a Martina era una cosa nota, ma che non riuscissimo nemmeno a permetterci dei cassonetti nuovi, è una novità. Basta andare dalle parti del Carmine e scendere dalla parti del tabaccaio che c’è di fronte alle scuole, e troviamo quel bel cassonetto che sta in foto.

cassonetto-scanzano

I dubbi che ci vengono sono due: o la Tradeco che da anni gestisce il traff… pardon, lo smaltimento dei rifiuti a Martina abbia comprato tutto il pacchetto da Scanzano rifiuti nucleari+cassonetti oppure lo smaltimento dei rifiuti per il quartiere Carmine è fatto dalla stessa azienda che serve il comune lucano. E sì, perchè Scanzano è famoso per le battaglie della sua popolazione contro l’istallazione di un cimitero di scorie nucleari, giacenti dalla chiusura delle centrali atomiche. Chi non ricorda il blocco delle strade fatto con i trattori. Bene, ora i loro cassonetti vecchi ce li abbiamo noi. Speriamo che questo cassonetto non sia un monito che ci indica che arriveranno anche le scorie che gli scanzanesi hanno scansato.

Paura eh???