Licenziati dalla crisi. Ovvero, la scomparsa delle responsabilità.

 [questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Siderlandia]

La crisi ci obbliga ad assumerci delle responsabilità. Rimbocchiamoci le maniche, stringiamo la cinghia, asciughiamoci il sudore e siamo pronti a subire aumenti e tagli, attacchi al sistema di diritto e riforme antidemocratiche. La crisi chiama e ogni cittadino è tenuto a rispondere, per il bene dell’Italia, dell’Europa, dell’Euro.

Sembra questo il messaggio che da qualche settimana viene lanciato ripetutamente dai media mainstream, attraverso articoli, interviste, grafici, sondaggi. La crisi chiama e tocca a tutti difendere le postazioni dai non ben definiti nemici. Siamo in guerra, sembra, e dei nemici da cui dobbiamo difenderci non sappiamo che i loro nomi: Spread, Bund, Btp, Mercati. Chi sono, come sono fatti, per conto di chi attaccano, solo in pochi fortunati lo sanno.

Pierpaolo Martucci, in un libro del 2006 chiamato “Criminalità economica”, in cui sostiene che i reati economici sono più dannosi per la società rispetto a quelli ordinari, affronta il rapporto tra i primi e l’opinione pubblica: “La riprovazione per un crimine è direttamente legato alla capacità, per un osservatore esterno, di provare empatia per la vittima di un reato – ossia partecipare emotivamente alla sua sofferenza – capacità che, a sua volta, è direttamente proporzionale alla possibilità di identificarsi o meno con quella particolare vittima, per la presenza o la similarità personali o situazionali. Questo processo empatico diviene blando o nullo quando la vittima è impersonale o indeterminata (in quanto il numero dei danneggiati è assai elevato) […]. Ma la peculiarità dei crimini economici può determinare anche il paradosso di una vittima talvolta inconsapevole: si pensi ai consumatori danneggiati […] dalla pubblicità ingannevole…”.

Se estendiamo il senso delle parole dell’autore, il criminale economico non fa schifo quanto uno scippatore perché nella maggior parte dei casi non ha volto.

Accostare crisi e criminalità economica, se a prima vista può sembrare una forzatura, in realtà, dal punto di vista dei risultati, sembra la stessa cosa. I risparmiatori della Parmalat hanno perso i loro soldi così come i cittadini italiani stanno perdendo la loro capacità di acquisto. La differenza è minima, il senso è lo stesso. Eppure la crisi fa più danni, pare, perché la maggior parte dei tagli li subiscono i lavoratori licenziati, i pensionati, i disoccupati che vedono, sempre più, peggiorare la loro situazione economica per “colpa della crisi”. Licenziati per la crisi, bancarotta per la crisi sono concetti volutamente vuoti che servono, magari inconsapevolmente, ad allontanare sempre più la percezione del rapporto tra causa ed effetto, quindi la consapevolezza della responsabilità, di quanto accade. In poche parole: il licenziato non conosce la faccia di chi lo licenzia, e spesso questa condizione viene raccontata come ineluttabile necessità immodificabile da qualsivoglia azione umana.

Le dinamiche economiche non hanno nulla di naturale, i mutui non si trovano in natura, nemmeno i buoni del tesoro e gli indici di borsa. Queste cose non accadono, non esistono senza che almeno un essere umano li determini. Eppure tra la responsabilità di quanto accade e la narrazione del fatto ci passa la volontà di rendere chiare le dinamiche. Lo Spread è impersonale anche se si scrive con la lettera maiuscola, ma dietro di esso ci sono scelte, azioni, parole, che hanno una faccia e un nome.

Confuse, le vittime non sanno con chi prendersela e, rese esasperate le loro vite, seguiranno il primo dito puntato.

Vivere con duecento euro al mese

Intervista a Teresa Palmisano, disoccupata da tre anni, che prende carta e penna e scrive ai giornali

È arrabbiata Teresa. Stanca delle pratiche che si bloccano negli uffici, dei tempi che si allungano, della tranquillità perduta. Teresa Palmisano è un’operaia impiegata nel tessile di Martina Franca, il marito lavora in un impresa edile. Entrambi licenziati, lei da tra anni ormai, lui da novembre. Ha usufruito degli ammortizzatori sociali previsti, la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ora aspetta la cassa in deroga, quella garantita dalla Regione, dato che quella statale si è esaurita.

È l’ennesima vittima di quella crisi del settore tessile che sta lentamente erodendo tutto il tessuto produttivo martinese, arrivando al licenziamento di più di metà degli addetti. La crisi del settore viene moltiplicata per la crisi sistemica che sta colpendo il credito, le banche. Non essendo un periodo roseo e non potendo rischiare, queste sono restie a prestare denaro alle aziende per gli anticipi sulle commesse. Le ditte, soprattutto le più piccole, le contoterziste, chiudono per sempre. Nel frattempo in città tutto scorre come se nulla fosse, ma il fiume pestifero di disoccupazione ha la fonte molto in alto (la ditta di Teresa, la Fides, ha licenziato 37 dipendenti tre anni fa) e non se ne intravede la foce.

La settimana scorsa, Teresa prende carta e penna e scrive una lettera ai giornali, per raccontare quello che sta accadendo. La incontriamo alla Camera del Lavoro di Martina Franca, dove ogni giorno aiuta gli altri come lei a sbrigare pratiche.

Cosa ti ha spinto a scrivere?

L’impossibilità di tenermi tutto dentro, la rabbia di vivere questa situazione, l’impossibilità di risolvere. Non sono una che si lamenta, non racconto la mia esperienza a tutti. Non so cosa mi sia preso, ma ad un certo punto non ce l’ho fatta più.

Rabbia contro chi, contro cosa?

Contro la situazione, l’impossibilità di vivere normalmente, contro il Governo, che sembra consideri me e quelli nella mia stessa condizione come ferri vecchi da buttare, da mettere da parte. Mi sento messa da parte, di non poter fare nulla. Sono arrabbiata con gli uffici che bloccano le pratiche, con la lentezza dell’Inps. L’altro giorno sono andata all’Inps, all’ufficio di Martina, per chiedere notizie sulla pratica della mia cassa in deroga. L’impiegato mi ha risposto che dipende dall’azienda, e non da loro. Bene, ho dovuto spiegare all’impiegato dell’Inps di Martina come funziona: una pratica del genere è di competenza loro e non dell’azienda. Poi ce l’ho con chi nonostante è in cassa integrazione, chi ha l’assegno di disoccupazione, lavora a nero. Con i pensionati che lavorano a nero.

Dove lavorano a nero?

In alcune aziende, che preferiscono avere manodopera non regolare. Tante delle mie ex colleghe lavorano, anche se sono in cassa integrazione. Mi chiedo se sia giusto che uno abbia il doppio stipendio e noi in casa nemmeno uno.

Cosa succede in casa tua?

Io prendevo mille euro di cassa integrazione straordinaria, che si è bloccata a novembre. E il 15 di quel mese mio marito ha perso il lavoro. Lui guadagnava ottocento euro e, tolti i trecento di affitto, riuscivamo a vivere bene, mantenendo una figlia di dodici e una di sei anni. Ma ora niente. Da novembre in casa nostra non entra una lira. E tutto si sta rompendo, non c’è più tranquillità. Con mio marito, con mia figlia grande che non capisce cosa sta accadendo e non vuole sentirsi diversa dalle sue amiche. Gli unici soldi che entrano sono quelli che guadagno arrangiandomi a fare le pulizie. Cento euro ogni due settimane.

Come si fa a vivere con duecento euro al mese?

Ci arrangiamo. Io faccio tutto in casa. Con cinquanta centesimi di farina faccio tre chili di pane. La salsa per la pasta la faccio io, macinando i pomodori. Cerco di andare il meno possibile al supermercato. Naturalmente abbiamo rinunciato ad uscire la sera, e quando vado al mercato vado solo per guardare…

Nonostante tutto però passi molto tempo al sindacato.

Già, mi fa pensare di meno a quello che mi aspetta a casa. Poi mi piace imparare, soprattutto quello che riguarda il lavoro, per evitare di essere presa in giro. Così mi metto a disposizione di chi come me viene dallo stesso settore e mi chiede una mano.

Cosa ti aspetti, cosa vorresti che accadesse?

Sono sicura di non essere l’unica in queste condizioni, ce ne sono tanti come me e tante famiglie che sono costrette ad indebitarsi per pagare le bollette, l’affitto. Non è possibile che non si faccia niente, che non si lotti per uscire dalla situazione. Non c’è bisogno dell’elemosina, non ne voglio. Due settimane fa sono andata dal sindaco per parlargli della mia situazione. Non volevo un aiuto economico, ma che partecipasse con noi alla nostra lotta, che prendesse a cuore la situazione di tutti quelli come me. Ma forse non ha capito: ha promesso di trovarmi lavoro…