La voce del mattone

Questo articolo è stato pubblicato lunedì 9 gennaio su Siderlandia, nella rubrica Officina Narrativa

Accade che a Martina Franca la Procura metta sotto sequestro un area boschiva e un cantiere edilizio in cui stavano per essere costruiti 44 appartamenti, tredicimila metri cubi di cemento colato in una pineta in cui esiste un’antica neviera. L’accusa dice che l’ex dirigente dello sportello unico per l’edilizia avesse dichiarato che l’intervento era solo per ristrutturare costruzioni già esistenti (mentre nella pineta c’erano solo pini e pigne) e che quella era un’area in cui si poteva comunque costruire, in barba al Piano Particolareggiato, scaduto nel 2000.

La solita storia, penserà il lettore: l’imprenditore che unge le ruote amministrative e il dirigente corrotto che, pur di permettersi il Suv, accetta di favorire questo o quello. Ma a questo bisogna aggiungere che l’imprenditore, forse il più noto di Martina Franca o, almeno, quello che da dieci anni condiziona l’economia locale, ha chiamato a raccolta il suo ufficio stampa e ha deciso che la miglior difesa è l’attacco, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, anche quelli sociali.

Premettiamo che le indagini sono ancora in corso e sappiamo benissimo che il risultato può essere qualunque. Ma a noi preme evidenziare la strategia messa in atto dal noto imprenditore per difendersi, almeno pubblicamente.

Il signor G, chiamiamolo così, occupa nell’immaginario locale uno spazio predominante: viene considerato “temuto” o “invidiato”; sicuramente tutti, ma proprio tutti i cittadini sanno cosa fa e quali sono o sono state le sue frequentazioni. Si era sempre tenuto alla larga dalle dispute di paese, almeno non era mai intervenuto mettendo la sua faccia. Questa volta è però cambiato qualcosa. Innanzitutto dopo il sequestro le due più note testate locali si schierano al suo fianco (e questo non ci deve sorprendere); poi invia una lettera in cui si scaglia contro le associazioni ambientaliste, colpevoli, secondo le sue parole, di prendersela con lui a prescindere, manovrati da qualcuno che ha altri interessi. La politica, infine – colpo di genio della lettera pubblicata ovviamente per intero – è la causa di tutti i mali nella cittadina della Valle d’Itria.

Altro giro, altra corsa. Sui social network i rappresentanti della associazioni fanno notare che non c’è nessun disegno politico e, soprattutto, non hanno i mezzi per condizionare le scelte della magistratura. Facebook è uno strumento potentissimo e chi sa utilizzarlo può determinare anche il cambiamento di umore di una comunità. Esistono però delle regole precise. In primo luogo la fiducia, che ognuno sia quello che dice di essere e che si metta in gioco in prima persona. Su Facebook Obama ha gli stessi mezzi dell’ultimo bambino che costruisce giocattoli nelle fabbriche cinesi. A differenza di una testata in cui la redazione sceglie cosa pubblicare o no, sul social network tutti possono commentare e tutti possono pubblicare. Non ci sono limiti, non ci sono privilegi, non ci sono differenze di censo, casta o classe.

Il sig. G. decide di intervenire nella discussione, utilizzando un account di un amico che scrive una lettera minatoria nei confronti di chiunque osi criticarlo, facendo pesare il suo ruolo nell’economia e il fatto che è chiaro, secondo il noto imprenditore, che l’attacco è chiaramente politico. La pineta storica era una discarica a cielo aperto, tanto vale la pena costruirci sopra 44 appartamenti (stessa linea seguita pedissequamente da alcuni giornali locali). Il primo aggiornamento di stato inizia così:

“Caro Sig. P.,
sono un amico del Sig. G. che mi ha chiesto di utilizzare il mio
profilo, non avendone lui uno proprio in quanto non ha il tempo per dedicarsi ad altre attività, essendo la sua giornata già ricca di impegni legati alla sua attività imprenditoriali. questo è il suo messaggio…”

Sintesi del messaggio: mi prendo cinque minuti dal mio lavoro, sicuramente più gratificante del tuo, per scriverti su un mezzo che non uso perché, appunto, non ho tempo da perdere. Il messaggio continua spiegando le sue ragioni e tentando, goffamente, di stabilire un dialogo con la parte opposta. Scegliere di intervenire in prima persona nell’agone non può che significare che le relazioni si sono indebolite e che non ci sono più quelle dinamiche che permettevano ai problemi di risolversi, ahem, con una stretta di mano. Il sig. G. ci mette la faccia, lo fa a modo suo. Tende la mano, sembra almeno, ma alla fine dedica al suo avversario una poesia:

“LA VITA CHE NON VIVE”
GLI UOMINI PERDONO LA SALUTE PER ROMPERE LE SCATOLE A CHI LAVORA…
POI PERDONO I SOLDI PER GUARDARE IL SUCCESSO DEGLI ALTRI…
GLI UOMINI PENSANO ANSIOSAMENTE AL FUTURO DEGLI ALTRI… E SI DIMENTICANO IL
LORO FALLIMENTO…
GLI UOMINI VIVONO MALE PER LA RICCHEZZA DEGLI ALTRI E NON SI ACCORGONO CHE IL
LORO SEMINATO STA BRUCIANDO…
GLI UOMINI DIVENTANO INVIDIOSI E CATTIVI PUR DI ESSERE PROTAGONISTI…

Parole che potrebbero dimostrare che il sig. G. non concepisce per nulla la possibilità di amare tanto un territorio da volere la sua tutela al di sopra di ogni cosa e non concepisce azioni politiche o di protesta se non per invidia nei confronti del successo altrui.

Potremmo dire al sig. G. che molti di noi lavorano notte e giorno per superare sé stessi e non gli altri, potremmo dire che nessuno di noi ha mai invidiato la sua condizione. Potremmo anche dire comprendiamo il suo stato d’animo ma che dovrebbe dotarsi di spin doctormigliori, addetti stampa che utilizzino il cranio non solo per coniugare il congiuntivo.

Potremmo dirlo, ma non sappiamo come fare, dato che è l’esempio del potere che parla per interposta persona, si relaziona solo con chi non gli dice mai no, che decide di interloquire solo se non viene interrotto.

A noi sembra che, grazie ai mezzi di comunicazione 2.0, le dinamiche del potere debbano inventarsi nuove strategie, non potendo ridurre al silenzio e non potendo pretendere compiacimento. Scrivere per interposta persona su Facebook significa pretendere di forzare un quadrato in uno spazio rotondo, ostentando una superiorità che non vuole scendere a patti, che considera le persone o merci o serve, per cui avere un account su Facebook significa non avere nulla da fare. Eppure il messaggio della lettera sembra andare oltre le parole. Sembra tentare di ribadire la volontà di controllo che non può esserci (almeno non in maniera così goffa e feudale) sui nuovi mezzi di comunicazione. Noi ci confrontiamo, urliamo, ci offendiamo, ma sicuramente non obbediamo più.

I segreti della casta di Montecitorio

Facebook stamattina ha portato una grossa novità: un precario incazzato, licenziato dopo 15 anni di lavoro a Montecitorio ha deciso di vuotare il sacco sui privilegi e le furberie dei nostri rappresentanti politici: ha aperto un blog (I segreti della casta di Montecitorio) e una pagina sul social network, il cui numero di fan cresce di centinaia nel giro di pochi secondi (adesso sono 39.567, vedremo quanti saranno alla fine del pezzo).

L’operazione è interessantissima, lo svelamento dei vizi e delle virtù dei deputati, i privilegi svelati ad un popolo incazzato educato da anni di crisi e da due decenni di voglia di giustizia.

Un’iniziativa che arriva dopo che è stata approvata la manovra finanziaria che prevede tagli per le classi meno privilegiate e il mantenimento dei bonus per i politici.

Non si può ancora dire se è reale o uno scherzo, però, nel dubbio, ho scritto questo post affichè rimanga traccia del tentativo coraggioso di rompere gli schemi e raccontare cosa accade nel Palazzo.

(Adesso i fan sono 43.153!)

Essere efficaci sul web non è un caso (un tentativo di analisi)

Dando ormai per scontato che le conversazioni online sono capaci se non di generare, quanto meno di alterare il contesto reale, consigliandoci di votare o di acquistare o di pensare qualcosa o qualcuno, essere in grado di gestirle è la chiave per assumere una posizione dominante. Ci sono diversi modo per influenzare dinamiche che ai più sembrano casuali:

  • Attraverso l’azione dei Serch Engine Optimizer (SEO) che influenzano i risultati delle ricerche di Google, facendo salire o scendere nelle pagine di ricerca un determinato sito (proprio ieri durante una riunione mi sono trovato nelle condizioni di spiegare che i primi posti del motore di ricerca non sono riservati necessariamente ai “migliori” siti, ma spesso a quelli meglio “indicizzati”)
  • Attraverso l’intervento di esperti di social media che non sono i diciottenni che smanettano e hanno 2000 amici, ma sono quelli che riescono a dire o a fare l’azione giusta al momento giusto con lo strumento giusto.

Siamo ancora in una fase sperimentale, nel giro di pochi mesi vengono  pubblicati saggi che confutano altri saggi che confutano altri saggi. Usare Facebook e compagnia twittando per una campagna elettorale o per vendere un prodotto (la differenza potrebbe non essere percepita da tutti) o per organizzare un’azione politica per quanto possa sembrare un gioco da ragazzi, molto spesso non lo è. E’ una questione di economia in fondo: il massimo risultato con il minimo sforzo. Ecco perchè riuscire a costruire la rete dei contatti di un gruppo significa partire avvantaggiati rispetto agli altri che, nonostante spammino a tutto spiano, non riescono ad ottenere gli stessi risultati. Lo sanno bene coloro che stanno dietro le quinte delle campagne elettorali che alla politologia preferiscono la fisica applicata alle reti.

Ho fatto una prova di analisi della rete del gruppo Facebook degli ex-corsisti di Running (un gruppo piccolo, di poche centinaia di nodi): quello che ne viene fuori l’ho spiegato brevemente in questa presentazione

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Aggiungo alle poche righe del documento, una considerazione: se si osserva bene la rete e se si conoscono le dinamiche, diviene chiaro che non necessariamente bisogna puntare al nodo più grosso perchè un messaggio abbia massima diffusione. Basterebbe trovare un nodo che sia in contatto con i nodi maggiori attraverso relazioni biunivoche.
Chi potrebbe essere?

Settecento di questi giorni

“Eppur si muove” oppure “non chiedere cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Vengono in mente tante citazioni durante l’incontro organizzato da Carlo Centrone, un tam tam sui social network che ha riempito la sala di Cristo Re. Tante persone, tante realtà, tante appartenenze. Anche politiche, nonostante sia chiaro dagli intenti dell’organizzatore e dai commenti in sala che proprio per le mancanze della politica ci si è trovati in una serata fredda di febbraio per organizzare “il compleanno di Martina Franca, il mio compleanno”, come ha detto Marangi della Ghironda.

Le parole di Centrone rimbalzano tra le file di sedie occupate, facce interessate, attente. Il progetto parte da un semplice assunto: l’Amministrazione Comunale pare non voglia assolutamente fare nulla per festeggiare adeguatamente il settecentenario della città. A questo punto, stanchi della solita ignavia dei politicanti locali, perchè non mettersi tutti insieme e organizzare la festa fatta dai martinesi per Martina Franca? Cittadini, associazioni, professionisti, imprenditori: tutti insieme in un’associazione che muore per statuto allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2011. Un’ATI, in pratica.

Guardandosi intorno, è evidente che c’è una cosa che accomuna tutti, dagli scout all’editore, dall’architetto al fotografo, all’operaio all’ex candidato consigliere. L’esclusione. Un’assemblea fondata sull’esclusione. Cosa hanno in comune tutti quanti? Il fatto di essere stati in qualche modo esclusi dagli ultimi 10 anni di vita politica/economica/sociale martinese. Esclusi dalla cricca che ha spartito potere e lotti di terreno, soldi per le manifestazioni e concessioni edilizie. Esclusi. Certo, non tutti sono ugualmente esclusi. Non è possibile paragonare un’associazione come la Ghironda a Terra Terra, sia per attività che per fatturato, ma entrambe, in qualche modo, sono state escluse.

Quindi eccoci qua, a rispondere “presente” alla chiamata di un cittadino tra i tanti (manco tanto) che ha preso la tastiera e ha creato l’evento su Facebook, ha coinvolto gli amici, ha chiesto di esserci. Una riunione che per il sottoscritto è costata due ore e mezzo di treno e una levataccia domani mattina per tornare a lavoro. Ma bisognava esserci per dire, insieme agli altri: “Eccomi, anche io sono un escluso”.

La politica è lontana, deve essere, a sua volta, esclusa da questo movimento (perchè è un movimento). Eppure l’assemblea di stasera è uno dei gesti più politicamente significativi che si sono fatti in città negli ultimi anni. Molti vogliono tenere fuori consiglieri e assessori, come in una sorta di vendetta civile, di boicottaggio democratico. Il popolo degli esclusi decreta che gli esclusori saranno esclusi. Eppure siamo sicuri che in sala c’è qualcuno che quelli (gli esclusori) li ha votati, magari ha anche fatto campagna elettorale.

Ma non importa. Non stasera.

 

Nel futuro ci aspetta Ghost in the Shell

“La prossima guerra sarà per catturare l’attenzione”. Con queste parole inizia il Public Camp 2010, il meeting dei comunicatori pubblici che si sono riuniti per il secondo anno consecutivo a Bari nell’ambito del Festival dell’Innovazione. Le parole con cui Eugenio Iorio, dirigente della Comunicazione Istituzionale della Regione Puglia, dà il via alle danze dell’incontro inaugurale “La società delle reti. Quando la comunicazione produce agire pubblico” fanno immediatamente capire qual è la posta in gioco in questi tre giorni in cui si alterneranno personaggi del calibro di Manuel Castells, Albert Làszlò Barabàsi e Michel Maffesoli, solo per citarne alcuni tra i più citati nelle lezioni di comunicazione. “In una società in cui la saturazione dell’attenzione (information-overload, direbbe Chomsky) rende ormai inutile la ripetizione all’infinito del messaggio, strategia che ha fatto la fortuna di Berlusconi imprenditore”, e ancora: “se la stagione dell’illuminismo è finita, le persone non si convincono più con gli strumenti della logica ma puntando alle emozioni”. Quindi “il terreno su cui si gioca la partita è la relazione”.

Immaginare la società del “futuro anteriore” è un compito che tocca anche ai comunicatori, a coloro che, scientificamente, costruiscono le narrazioni in cui viviamo quotidianamente, creando i nostri bisogni, i nostri miti, i nostri ideali. A Bari, nei tre giorni del Public Camp, si discute del mondo futuro citando Matrix e “Ghost in the Shell”, e non Marx o Smith perché, come dice Castells (e abilmente riportato nel materiale di comunicazione dell’evento): “[…] il potere si fonda sulla comunicazione”.

Il pensiero va immediatamente a internet, quindi, ai social network che tanto stanno influenzando il modo di interagire tra esseri umani. Iorio è chiaro fin da subito “non è vero che il web è democratico e libero”. E non tanto perché ogni nostra parola è controllata, ma perché i protocolli di funzionamento dell’intero sistema sono di proprietà privata, Google decide cosa dobbiamo trovare se cerchiamo “albergo a Roma” e Facebook archivia i nostri gusti personali in materia di musica, di politica o di religione.

Se condivido le foto delle vacanze con gli amici, inconsapevolmente sto contribuendo ad una ricerca di mercato. Con buona pace di Debord, siamo ingranaggi del sistema anche quando siamo in chat.

Il problema diventa tattico: capire chi detiene il potere permette di studiare strategie efficaci. Secondo i relatori è chiaro: sono gli influencer, quei nodi di rete che hanno un numero di contatti significativo che possono determinare non più la produzione di informazione ma la sua trasmissione, hub umani che gestiscono centinaia di contatti/relazioni. Lo spiega il fisico Baràbasi durante la sua lectio magistralis, portando gli esempi di tutte le strutture reticolari presenti in natura, le cui leggi di funzionamento non sono affidate al caso ma ad algoritmi precisi che non siamo in grado, ci scuserà chi legge, di riportare.

Il rischio, paventato durante la relazione introduttiva di Iorio, è che i meccanismi di comunicazione che fanno funzionare la rete, possano essere utilizzati anche a insaputa dei cittadini, per vendere uno shampoo o per insegnarci ad odiare i rom (per esempio).

Mentre l’evento inaugurale va avanti, sullo schermo di sfondo scorrono i twit che hanno per tema il Public Camp. Dai loro tablet, da i loro smart phone, gli studenti di comunicazione e gli addetti ai lavori, commentano gli interventi in diretta. In tipico stile 2.0.

La posta in gioco è il rapporto tra istituzioni e cittadini, tra pubblico e privato, tra democrazia e dittatura. Capire come funziona permette di prendere delle contromisure, attraverso strumenti tattici che, superandolo, sono la naturale evoluzione del mediattivismo degli anni novanta. Non Indymedia, quindi, ma “cavalli di Troia” che diffondano buoni significati. Capire come funziona è indispensabile anche perché quello che accade accada all’interno delle regole della società democratica. Nell’infinita produzione di micro narrazioni attraverso i social media, che mettono noi al centro del racconto, è fondamentale che gli obiettivi siano chiari per tutti, perché la trasparenza (dell’obiettivo, non come obiettivo) è requisito fondamentale della democrazia.

In un altro campo, in un’altra storia, Di Lernia, antropologo medico, parlando del rapporto tra chi cura e chi è curato dice che il potere è necessario affinchè possa essere combattuto lo stato di malessere, ma le regole tra paziente e medico devono essere chiare, concordate, trasparenti. Altrimenti il potere muta la sua forma e diventa dominio.

 

“Giù le mani dall’asino di Martina Franca”

Grande scalpore hanno suscitato le vicende dei quasi duecento asini custoditi a Masseria Russoli, ma forse ci sono altri interessi dietro tanta premura equina

La maestra delle elementari ci faceva tagliare del cartoncino e con questo facevamo un cono e due orecchie lunghe da appiccicare sopra. Era il cappello del ciuco, dell’asino, che si doveva mettere in testa l’ultimo della classe. Non è un bel ricordo, risveglia antichi timori, quello di non essere adeguato, pronto, intelligente. Vedendo gli asini della masseria Russoli, in una soleggiata mattinata di marzo, sono stati questi i primi pensieri venuti in mente. Guardare questi animali che da settimane hanno scatenato un’accesa bagarre politica a Martina Franca, con il coinvolgimento nientepopodimenochè di Striscia la Notizia, mi ha fatto pensare ai tempi della scuola, in cui essere “ciuccio” era un problema. Ora invece su internet e sui giornali, si fa a gara per dimostrare chi è più amico dell’orecchiuto animale.

Quello che sta accadendo, in sintesi, è che il centro di salvaguardia dell’asino martinese, presso la masseria Russoli, non si capisce da chi deve essere gestito, la Regione pare faccia orecchie da mercante e intorno iniziano a girare i soliti avvoltoi pronti a cibarsi dei cadaveri. Nel 2005 la Giunta Regionale decide di non rinnovare la convenzione che da dieci anni dava al Corpo Forestale la gestione della struttura. Durante questo tempo la Forestale affidava il controllo e la cura degli animali a una coppia di custodi e ad alcuni operai. Essi garantivano che tutto si svolgesse per il meglio e la Forestale nel frattempo provvedeva ai lavori di restauri e di mantenimento della struttura. Nel 2007 scade l’ultima convenzione, gli operai tornano a casa e alla masseria rimane solo la coppia di custodi, che nel centro, appunto, abitava. La Regione decide allora di dare al Centro Incremento Ippico di Foggia la cura della Masseria, ma non si esprime sulle sorti dei due custodi che, per legge, sarebbero dovuti passare automaticamente alla cooperativa di Foggia. Questo stava per accadere, se non fosse che, il signor Marangi, in attesa di risposte dalla Regione, si era rivolto all’avvocato Terrulli, che gli aveva consigliato di non accettare la proposta di assunzione, seppur di tre mesi, fatta dalla cooperativa. Quindi scoppia il caso: l’avvocato chiama i giornalisti, che giustamente si avventano sull’osso riportando quanto stava accadendo. Insieme a loro si avvicina al caso, paladino di giustizia, il consigliere comunale Paolo D’Arcangelo, facendo sua la questione. Viene tirata in ballo la Regione che, senza alcun rimorso, preferisce far morire gli asini invece che occuparsi della faccenda. Nel frattempo i due operai che lavoravano lì hanno perso il posto e il custode e la moglie rischiano di essere sfrattati e, come a suggellare il momento di crisi della questione, un asino decide di morire impantanato nel fango. In un’interrogazione consiliare fatta da Nino Marmo di AN, l’assessore Russo risponde che l’asino sia morto di vecchiaia, mentre secondo i veterinari è morto di polmonite causata dal grande freddo che faceva in quel periodo. Non solo, ma l’assessore dice che la vicenda è stata montata ad arte. La domanda è da chi e per quale motivo.

Se lasciamo un attimo da parte la strumentalizzazione politica da parte di qualche consigliere comunale, la vicenda appare abbastanza ingarbugliata: la masseria fa gola a molti e che la Regione si riservi il ruolo di gestirla crea problemi. Senza nulla togliere alla vicenda in sé, cioè che la mancanza di manodopera mette a dura prova l’esistenza della comunità asinina, gestire un posto del genere significa poter accedere a una quota cospicua di soldi pubblici. Nel frattempo, a parte il gruppo nato su Facebook che domenica organizza in piazza una raccolta firme per chiedere, in soldoni, che la gestione della masseria passi dal pubblico al privato, su internet ci sono alcuni forum tematici in cui ci sono notizie più concrete. In una dichiarazione rilasciata da D’Arcangelo a Cronache Martinesi, si legge che sarebbe stato meglio affidare Russoli e gli asini a chi non avrebbe permesso loro il deperimento. Interpellato sull’argomento, dice di non avere nessuno di preciso in mente, ma che sarebbe meglio una società privata. I nomi possiamo provare a farli noi: il primo è Onos, una società con sede a Palagiano che si occupa di commercio di latte di asina, con cui, nel 2007 il comune di Crispiano aveva stipulato un protocollo di intesa per un non specificato programma di interesse collettivo alla masseria Russoli. Il secondo nome è quello dell’ Associazione Nazionale Allevatori del Cavallo delle Murge e dell’Asino di Martina Franca, che si dice disposta ad appropriarsi del centro e che, fondamentalmente, la gestione che avveniva fino a pochi anni fa era migliore: gli allevatori avevano in comodato d’uso le fattrici e poi potevano tenersi i puledri. Se proviamo a tirare le fila della vicenda abbiamo da un lato una comunità di asini che non può essere gestita da due sole persone e dall’altro invece alcuni avvoltoi pronti a cibarsi dell’osso. Ma per farlo, la Regione deve farsi da parte, deve essere spinta a lasciare. In questo interviene la stampa e Striscia la Notizia, che non fa altro che alzare il polverone, per nascondere meglio il volo degli avvoltoi che si fa sempre più basso che, naturalmente, non hanno alcun interesse ad inimicarsi l’ente pubblico. A questo punto, ci chiediamo, a chi si riferisca realmente il nome del gruppo nato su Facebook “Giù le mani dall’asino di Martina Franca”.

Arrivati alla masseria, un gruppo dei 181 asini ospiti, pascolavano placidamente nell’erba tagliata di fresco, alcuni stesi a sonnecchiare e altri invece a mangiare i germogli degli ulivi. Alla vista del cronista e della macchina fotografica, sono scappati impauriti, segno questo che tutto l’interesse suscitato dalla vicenda, li ha infastiditi un po’.