Il buon affare dei misteriosi africani di Martina Franca

Questo articolo è stato pubblicato sull’Almanacco Clandestino di Carta il 10 Aprile 2009. Tre giorni dopo, a Pasqua, sulla Gazzetta del Mezzogiorno esce un interessante reportage sulla stessa vicenda, ma dai toni nettamente diversi.

Riteniamo importante segnalare che da quando l’articolo è stato redatto a quando è stato pubblicato la Croce Rossa si è fatta carico del documento di viaggio.

Ecco l’articolo di Carta

Quando arrivarono a Martina, ognuno aveva le proprie teorie su chi potessero essere. Alcuni dicevano fossero dei giocatori stranieri venuti in trasferta, per il calcio o per la pallavolo. Altri dicevano fossero turisti oppure studenti in gita. Nessuno aveva un’idea precisa: sarà perché erano vestiti uguali, sarà perché erano per la maggior parte giovanissimi oppure sarà stato perché le amministrazioni non hanno fatto nessun cenno alla cittadinanza riguardo questa novità. Ad un certo punto di fine ottobre ci siamo trovati in casa cento ragazzi spaesati che non sapevano dove fossero, in mezzo a persone che non sapevano chi fossero. L’unica certezza era che alloggiavano presso l’Hotel Dell’Erba, struttura alberghiera a tre stelle, che di solito ospitava congressi e qualche turista di passaggio. Attraverso i giornali si è scoperto che, a causa dell’ingente numero di sbarchi a Lampedusa, i posti nei centri di accoglienza erano terminati e il Governo, tramite le Prefetture, aveva stretto accordi con strutture private per ospitare i richiedenti asilo. In provincia di Taranto, Federalberghi aveva messo a disposizione due strutture, una a Castellaneta Marina e una, il Dell’Erba, a Martina Franca, la prima gestita dalla Caritas e la seconda dalla Croce Rossa.

La presenza dei cento africani a Martina Franca non si fa notare, fino a quando a metà dicembre il gruppo degli eritrei non organizza una manifestazione spontanea in piazza, con cartelli scritti in un italiano approssimativo, in cui chiedevano la possibilità di avere un «pocket money», oppure schede telefoniche e sigarette e, soprattutto, notizie riguardanti la loro richiesta di asilo.

La manifestazione dura pochi minuti, il tempo che intervengano le volanti della polizia per scortarli poi nell’albergo. La notizia si sparge e in breve viene convocata una conferenza stampa all’interno del centro per chiarire che le cose vanno nel migliore dei modi, e che la manifestazione è stata causata dalla pretesa degli ospiti di ottenere cose che non spettano loro. Chi parla è Domenico Maria Amalfitano, presidente del comitato provinciale tarantino della Croce Rossa, ex parlamentare DC, che spiega che la presenza e i servizi ai richiedenti asilo presso il centro di Martina Franca, sono regolati da una convenzione tra la Croce Rossa e la Prefettura di Taranto, che l’hotel è temporaneamente trasformato in Centro di Accoglienza per i Richiedenti Asilo [CARA] e che si stanno muovendo per dare agli ospiti tutto quello che serve perché possano sentirsi accolti. La prima cosa è l’assistenza sanitaria, attraverso una convenzione con la ASL. Nonostante la legge italiana lo preveda a prescindere. Tutt’apposto dunque, ci assicura il presidente, la protesta – secondo lui – nasce da un’incomprensione da parte dei ragazzi che pretendono cose che non sono previste dalla convenzione.

Questa parola, “convenzione”, in questa storia riemerge sempre più a sostituire il termine “legge”: i servizi sono offerti secondo la “convenzione”, i corsi di italiano sono fatti perché lo prevede la “convenzione”, i vestiti sono acquistati in base alla “convenzione”. Nessuno parla di legge, ma di un accordo di cui è difficilissimo entrare in possesso, magari solo di sfuggita per una rapida occhiata, giusto per capire quali sono i diritti degli «ospiti» dell’albergo. L’unica cosa che si comprende è che tutto quello che sta accadendo è di natura straordinaria ed emergenziale, ma anche che traccia un orizzonte di cambiamento nel sistema dell’accoglienza dei migranti.

Secondo i dati forniti dall’Anci nel dicembre dello scorso anno, i richiedenti asilo in Italia nel 2008 erano quasi 27 mila, triplicati rispetto a tre anni prima. Questo significa che il sistema di protezione ed inclusione che comprende i centri di prima e di seconda accoglienza, i centri di accoglienza per richiedenti asilo (C.A.R.A.), tutto il sistema dello S.P.R.A.R., non è sufficiente a rispondere all’incremento della domanda. Per questo, con il decreto del 12 settembre 2008, il Ministero dell’Interno estende lo stato di emergenza per l’eccezionale afflusso di migranti a tutto il territorio nazionale e, attraverso un’attenta ricerca sul territorio, individua circa 60 strutture da destinare a centri di accoglienza per un totale di 10.488 posti, tra cui Martina Franca e Castellaneta Marina. Nella maggior parte dei casi, questi centri sono strutture alberghiere messe a disposizione dalla categoria e dati in gestione a enti ecclesiastici e laici. Il provvedimento non è un’improvvisazione, ma sembra il rispolvero di un progetto del 1999 chiamato “Azione comune”, che aveva come capofila il CIR e come partner, tra gli altri, ACLI, Caritas, CTM – Movimondo, CISL, UIL, come finanziatori la Commissione Europea e il Ministero dell’Interno, e come obiettivo l’accoglienza dei richiedenti asilo che facevano richiesta nel nostro paese. All’epoca i numeri non erano quelli di oggi e l’esperienza di accoglienza non era ancora strutturata. Il progetto prevedeva l’accoglienza in piccoli o medi centri, assistenza sanitaria e consulenza psicologica e sociale. Proprio quello che accade nell’albergo. Ma se il progetto “Azione comune” si è poi evoluto nel sistema S.P.R.A.R., l’ordinanza del Presidente del Consiglio del 12 settembre rappresenta un evidente passo indietro.

Ad ascoltare le opinioni dei ragazzi ospitati, le mancanze da parte dell’ente gestore sono evidenti. «Non siamo animali», ci dice uno di loro, «non abbiamo bisogno solo di mangiare e di dormire». Altri invece sono convinti che la Croce Rossa si metta in tasca tutti i soldi che invece spetterebbero agli ospiti. Una convinzione scaturita dal fatto che i richiedenti asilo ospitati a Martina Franca hanno potuto comparare la loro condizione con le esperienze pregresse di amici o parenti già presenti in Italia. Non solo dormire e mangiare: «I nostri diritti sono altri», ci continua a dire il ragazzo con cui parliamo, «vogliamo sapere a che punto è la nostra pratica presso la commissione, parlare con persone esperte. Se chiediamo alla Croce Rossa, l’unica risposta è:non lo so».

Dice Enzo Pilò, dell’associazione Babele di Grottaglie, che gestisce il progetto per la rete SPRAR “Passi di donna”, che ha verificato più volte le condizioni del centro di Martina, che la mancanza più evidente è rispetto all’informazione legale: i ragazzi non sanno nulla di quello che chiederà loro la commissione territoriale, che documenti avranno, cosa prevede la legge italiana, e soprattutto non sanno che fine faranno. La Croce Rossa sostiene che l’informativa legale è stata fatta, e che un avvocato sta anche seguendo le pratiche dei ricorsi ai dinieghi. Che tipo però di informazione non lo dice, ma può essere ricostruito quanto accade confrontando ciò che dice la convenzione e quello che è stato fatto. Il documento firmato dalla Prefettura e dall’ente gestore prevede che, a parte i bisogni fondamentali, l’ente preveda anche all’assistenza sanitaria, psicologica, sociale e legale e soprattutto ad un servizio di mediazione culturale. Cosa che effettivamente avviene all’interno del centro, ma tutto fatto dai volontari della Croce Rossa e non da personale esperto o qualificato. Una ragazza che parla inglese diventa la mediatrice e un volontario che è avvocato spiega la legge sull’asilo. Una legge che dovrebbe essere distribuita all’arrivo nel centro in almeno cinque lingue diverse e che invece i ragazzi hanno avuto solo in italiano: «Ho avuto questo», ci dice un ragazzo eritreo indicando il malloppo della legge italiana sull’asilo , «ma non so cosa sia».

Dalla convenzione si evince che la spesa giornaliera per ciascun ospite è di circa cinquanta euro, qualcosa in più rispetto allo standard dei centri di accoglienza. Con questa somma l’ente dovrebbe pagare la struttura che ospita, i servizi minimi e quelli previsti dalla convenzione. L’uso del denaro però, è molto discrezionale, sulla convenzione non c’è nessun riferimento a quanto spendere per quale tipo di servizio. L’unica cosa certa è che l’Hotel Dell’Erba è molto caro ma, a quanto afferma la dottoressa Distani, capo di gabinetto della Prefettura tarantina, l’urgenza con cui il ministero ha chiesto di trovare le strutture adatte, non ha lasciato scelta. Per il resto c’è una totale libertà, con l’obbligo però della rendicontazione. Di questo ne siamo certi perché la Caritas di una parrocchia locale, si era proposta di procurare ai richiedenti dei vestiti. La risposta della Croce Rossa è stata che o erano nuovi oppure sigillati, altrimenti niente. A seguito della protesta di dicembre, a cui poi ne è seguita un’altra, dopo poco più di dieci giorni, per gli stessi motivi, la Croce Rossa ha deciso di dare piccole somme di denaro a ciascuno degli ospiti. A Natale hanno avuto quindici euro, un regalo che di tanto in tanto, senza una scadenza fissa, si ripete.

La situazione di precarietà ha prodotto delle reazioni da parte dei richiedenti asilo. A parte le manifestazioni, alcuni di loro si possono vedere in giro a Martina a fare la colletta per le sigarette, a cercare di ottenere informazioni, oppure un lavoro. In maniera diversa, anche a seconda della nazionalità, molti si sono arrangiati. Alcuni dei ragazzi del Bangladesh hanno trovato lavoro presso i fruttivendoli ambulanti, qualcuno invece vende ombrelli o borse per strada. Sull’argomento, le parole del responsabile per la Croce Rossa del centro, che ama presentarsi come colonnello Calò, sono emblematiche: “Questo è un buon ammortizzatore sociale”. Nel frattempo però alcuni di loro hanno ottenuto il riconoscimento, chi di rifugiato chi invece l’asilo politico. Il passo successivo è quello dei documenti, di cui uno fondamentale: il documento di viaggio. Esso sostituisce il passaporto e permette loro di viaggiare. Per averlo però bisogna sborsare una cifra, tra fotografie, bolli e bollettini, di più di sessanta euro. Denaro di cui è difficile che i rifugiati siano in possesso. A questo punto, secondo la prassi, l’ente gestore del centro, si accolla le spese e si prodiga a fornire informazioni. A Martina questo non è accaduto, ed è il colonnello Calò a dare una spiegazione: “Mica questa è un’agenzia di viaggio”. Per le tasse sul permesso di soggiorno invece, solo l’intervento della Prefettura ha fatto sì che fossero accollate all’ente gestore.

Poi ci sono le informazioni. La Croce Rossa sostiene di aver svolto appieno il ruolo, dichiarandosi sempre pronta a fornire agli ospiti spiegazioni e consigli. A parte la buona volontà dei volontari, questo però non spiega come mai i richiedenti asilo si sono presentati in tutti gli uffici di Martina a chiedere cosa si fa, come si fa e quando si fa, rispetto alle pratiche di richiesta di permesso di soggiorno. Sono stati più volte alla Cgil, che si è attivata prontamente, poi alla Cisl. Infine hanno trovato in un’ispettrice di polizia, che li ha presi in simpatia, una porta sempre aperta per tutte le notizie necessarie. Ma non basta. E questo lo si vede appena si arriva davanti al cancello che separa il CARA dal resto del mondo. Si crea un capannello immediato di gente che in un inglese con diverse sfumature chiede notizie, informazioni, rassicurazioni.

La convenzione è stata rinnovata di altri due mesi. Fino al 31 maggio. Poi nessuno sa che cosa accadrà, dato che i centri di seconda accoglienza sono pieni. Nessuno sa fornire una risposta, non la Prefettura che aspetta notizie dal Ministero, non la Croce Rossa che aspetta notizie dalla Prefettura. Di certo rimane che l’esperienza è stata tanto «bella» che Amalfitano pare sia in cerca nel territorio di Taranto di una struttura da trasformare in un centro di accoglienza professionale.

Protocollo d’intesa tra sindacati e amministrazione. La casa di riposo non si tocca.

Dopo ore di trattative tra sindacati e amministrazione, finalmente si raggiunto un accordo di programma tra le parti. La casa di riposo deve chiudere temporaneamente, giusto il tempo di fare gli interventi restaurativi dell’immobile. Nel frattempo gli anziani ospiti saranno ospitati in strutture private, la cui retta sarà tutta a carico del Comune. I lavoratori invece saranno temporaneamente assegnati ad altre mansioni, che rientrano però nelle loro competenze. La cosa importante, come si evince dal protocollo di intesa, è che sarà costituito un tavolo paritetico tra Comune (rappresentato dal Sindaco e dall’assessore ai Servizi Sociali), da un rappresentante per sindacato e da un rappresentante per i lavoratori. Il tavolo avrà il compito di monitorare l’andamento dei lavori e il rispetto del protocollo. Si è aperta una speranza quindi, l’amministrazione, messa davanti alle sue responsabilità, ha fatto il suo dovere: salvaguardare il benessere dei cittadini e per Martina c’è stata una grande lezione: scendere il piazza paga…

Contro la chiusura della casa di riposo comunale

Ecco che si palesa la volontà di privatizzare tutto il privatizzabile, a partire dai servizi sociali. A Martina Franca l’amministrazione Palazzo ha deciso che la casa di riposo comunale, che ospita 13 persone, deve chiudere. Martedì 31 lo sgombero e il trasferimento degli ospiti in strutture private. I sindacati, capeggiati da un’agguerrita Isabella Massafra, dicono no e sabato scorso hanno indetto una manifestazione in cui si proponeva la strategia della lotta contro la decisione del Comune. La gente, non è il caso di dirlo, esasperata ha avuto modo di esprimere quello che pensa del Palazzo Ducale. Ascoltare per credere…

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“Giù le mani dall’asino di Martina Franca”

Grande scalpore hanno suscitato le vicende dei quasi duecento asini custoditi a Masseria Russoli, ma forse ci sono altri interessi dietro tanta premura equina

La maestra delle elementari ci faceva tagliare del cartoncino e con questo facevamo un cono e due orecchie lunghe da appiccicare sopra. Era il cappello del ciuco, dell’asino, che si doveva mettere in testa l’ultimo della classe. Non è un bel ricordo, risveglia antichi timori, quello di non essere adeguato, pronto, intelligente. Vedendo gli asini della masseria Russoli, in una soleggiata mattinata di marzo, sono stati questi i primi pensieri venuti in mente. Guardare questi animali che da settimane hanno scatenato un’accesa bagarre politica a Martina Franca, con il coinvolgimento nientepopodimenochè di Striscia la Notizia, mi ha fatto pensare ai tempi della scuola, in cui essere “ciuccio” era un problema. Ora invece su internet e sui giornali, si fa a gara per dimostrare chi è più amico dell’orecchiuto animale.

Quello che sta accadendo, in sintesi, è che il centro di salvaguardia dell’asino martinese, presso la masseria Russoli, non si capisce da chi deve essere gestito, la Regione pare faccia orecchie da mercante e intorno iniziano a girare i soliti avvoltoi pronti a cibarsi dei cadaveri. Nel 2005 la Giunta Regionale decide di non rinnovare la convenzione che da dieci anni dava al Corpo Forestale la gestione della struttura. Durante questo tempo la Forestale affidava il controllo e la cura degli animali a una coppia di custodi e ad alcuni operai. Essi garantivano che tutto si svolgesse per il meglio e la Forestale nel frattempo provvedeva ai lavori di restauri e di mantenimento della struttura. Nel 2007 scade l’ultima convenzione, gli operai tornano a casa e alla masseria rimane solo la coppia di custodi, che nel centro, appunto, abitava. La Regione decide allora di dare al Centro Incremento Ippico di Foggia la cura della Masseria, ma non si esprime sulle sorti dei due custodi che, per legge, sarebbero dovuti passare automaticamente alla cooperativa di Foggia. Questo stava per accadere, se non fosse che, il signor Marangi, in attesa di risposte dalla Regione, si era rivolto all’avvocato Terrulli, che gli aveva consigliato di non accettare la proposta di assunzione, seppur di tre mesi, fatta dalla cooperativa. Quindi scoppia il caso: l’avvocato chiama i giornalisti, che giustamente si avventano sull’osso riportando quanto stava accadendo. Insieme a loro si avvicina al caso, paladino di giustizia, il consigliere comunale Paolo D’Arcangelo, facendo sua la questione. Viene tirata in ballo la Regione che, senza alcun rimorso, preferisce far morire gli asini invece che occuparsi della faccenda. Nel frattempo i due operai che lavoravano lì hanno perso il posto e il custode e la moglie rischiano di essere sfrattati e, come a suggellare il momento di crisi della questione, un asino decide di morire impantanato nel fango. In un’interrogazione consiliare fatta da Nino Marmo di AN, l’assessore Russo risponde che l’asino sia morto di vecchiaia, mentre secondo i veterinari è morto di polmonite causata dal grande freddo che faceva in quel periodo. Non solo, ma l’assessore dice che la vicenda è stata montata ad arte. La domanda è da chi e per quale motivo.

Se lasciamo un attimo da parte la strumentalizzazione politica da parte di qualche consigliere comunale, la vicenda appare abbastanza ingarbugliata: la masseria fa gola a molti e che la Regione si riservi il ruolo di gestirla crea problemi. Senza nulla togliere alla vicenda in sé, cioè che la mancanza di manodopera mette a dura prova l’esistenza della comunità asinina, gestire un posto del genere significa poter accedere a una quota cospicua di soldi pubblici. Nel frattempo, a parte il gruppo nato su Facebook che domenica organizza in piazza una raccolta firme per chiedere, in soldoni, che la gestione della masseria passi dal pubblico al privato, su internet ci sono alcuni forum tematici in cui ci sono notizie più concrete. In una dichiarazione rilasciata da D’Arcangelo a Cronache Martinesi, si legge che sarebbe stato meglio affidare Russoli e gli asini a chi non avrebbe permesso loro il deperimento. Interpellato sull’argomento, dice di non avere nessuno di preciso in mente, ma che sarebbe meglio una società privata. I nomi possiamo provare a farli noi: il primo è Onos, una società con sede a Palagiano che si occupa di commercio di latte di asina, con cui, nel 2007 il comune di Crispiano aveva stipulato un protocollo di intesa per un non specificato programma di interesse collettivo alla masseria Russoli. Il secondo nome è quello dell’ Associazione Nazionale Allevatori del Cavallo delle Murge e dell’Asino di Martina Franca, che si dice disposta ad appropriarsi del centro e che, fondamentalmente, la gestione che avveniva fino a pochi anni fa era migliore: gli allevatori avevano in comodato d’uso le fattrici e poi potevano tenersi i puledri. Se proviamo a tirare le fila della vicenda abbiamo da un lato una comunità di asini che non può essere gestita da due sole persone e dall’altro invece alcuni avvoltoi pronti a cibarsi dell’osso. Ma per farlo, la Regione deve farsi da parte, deve essere spinta a lasciare. In questo interviene la stampa e Striscia la Notizia, che non fa altro che alzare il polverone, per nascondere meglio il volo degli avvoltoi che si fa sempre più basso che, naturalmente, non hanno alcun interesse ad inimicarsi l’ente pubblico. A questo punto, ci chiediamo, a chi si riferisca realmente il nome del gruppo nato su Facebook “Giù le mani dall’asino di Martina Franca”.

Arrivati alla masseria, un gruppo dei 181 asini ospiti, pascolavano placidamente nell’erba tagliata di fresco, alcuni stesi a sonnecchiare e altri invece a mangiare i germogli degli ulivi. Alla vista del cronista e della macchina fotografica, sono scappati impauriti, segno questo che tutto l’interesse suscitato dalla vicenda, li ha infastiditi un po’.

LA DIFFERENZIATA, QUESTA SCONOSCIUTA

Oggi pomeriggio incontro sui rifiuti all’auditorium Cappelli. Cgil Cisl e Uil: dal Comune serve trasparenza.

Qualche mese fa, passando a piedi dalle parti del Carmine, si poteva notare un cassonetto particolare. Attirava l’attenzione perché aveva sul davanti l’adesivo con su scritto “Comune di Scanzano”. Era proprio davanti al tabaccaio che sta di fronte alla scuola elementare. Un vecchio cassonetto di come ce ne sono tanti in giro, ma diverso perché recava con sé il marchio di un’altra vita. Diciamo un cassonetto di seconda mano. Ma se il riutilizzo di qualcosa, a maggior ragione se a farlo è una ditta di smaltimento dei rifiuti, non deve preoccupare, il nome Scanzano invece rievoca brutti ricordi, legati guarda caso ai rifiuti. Tossici. Anni fa infatti, i cittadini di Scanzano Jonico si mobilitarono in massa per dire no alla presenza dei rifiuti tossici. La città di Martina, forse solidale con la loro lotta, ricorda quell’evento ospitando un cassonetto (l’unico di cui abbiamo notizia) di quel comune. La foto del cassonetto fu pubblicata dallo scrivente sul blog Officina Narrativa e immediatamente dopo l’adesivo è stato strappato.

Intanto per oggi pomeriggio i sindacati confederali, Cgil Cisl e Uil, organizzano un incontro che ha per tema proprio i rifiuti, in cui parleranno amministratori comunali provinciali e regionali. Uno dei motivi dell’incontro, si legge sul documento unitario dei sindacati, è la tassa sui rifiuti che ogni anno aumenta del 50 percento. Un aumento che sarebbe giustificato da un corrispettivo aumento della produzione di immondizia, ma dai dati si evince il contrario. Sarà legato alle penalità che il Comune paga per non aver raggiunto gli obiettivi di raccolta differenziata, o a varie irregolarità. Una fra le tante, si legge nel documento, è il fatto che non si fa una gara d’appalto per lo smaltimento dei rifiuti da almeno sei anni, prorogando di anno in anno il capitolato stipulato nel 1993 con la Tradeco. Al comune rispondono che dipende dall’Ato, da Massafra, dal sindaco Tamburrano, ma interpellata mesi fa sull’argomento l’assessore martinese competente, la vicesindaco Maffei, non ha risposto. Anzi, ha negato l’intervista più volte, dicendo di non conoscere l’argomento. Per questa sera si spera abbia studiato.

Poi c’è la raccolta differenziata, croce e delizia di ogni amministrazione pubblica, due parole tanto abusate ma di cui non si conosce il significato. A Martina tempo fa uscirono titoli cubitali sui giornali in cui si diceva che grazie all’amministrazione Palazzo la raccolta differenziata era aumentata del 50 percento. E basta. Non si diceva che il 50 percento del tre percento è un nulla. Secondo gli obiettivi imposti dalla Regione, a loro volta mutuati dall’Unione Europea, avremmo già dovuto essere intorno al 40 percento, mentre Martina è ferma al quattro. E non è un problema del sud, dato che abbiamo esempi vicinissimi di raggiungimento di questi obiettivi, come a Palagianello o a Ceglie Messapica, in cui sono stati addirittura eliminati i cassonetti.

Sia Isabella Massafra che Augusto Busetti, interrogati sull’argomento, rispondono che l’incontro è stato organizzato anche perché il Comune non ha mai risposto alle richieste dei sindacati di chiarire la faccenda, a loro volta spinti anche dalle migliaia di cittadini che sono costretti a pagare sempre più tasse. In primo luogo chiedono trasparenza, nei rapporti con i cittadini e nelle pratiche di gestione dei rifiuti, trasparenza che è sempre mancata. Essi si augurano che oggi alle sei di pomeriggio, con i rappresentanti locali, la sopracitata Maffei, il consigliere Pentassuglia, l’assessore provinciale Conserva e l’assessore regionale Losappio, possa essere un momento di partenza per la risoluzione della questione.

Intanto il cassonetto di Scanzano, nonostante abbiano strappato via l’adesivo, continua ad essere lì, incurante di quello che accade intorno, a monito perenne di quello che potrebbe accadere se i cittadini tutti manifestassero il proprio dissenso.

Vivere con duecento euro al mese

Intervista a Teresa Palmisano, disoccupata da tre anni, che prende carta e penna e scrive ai giornali

È arrabbiata Teresa. Stanca delle pratiche che si bloccano negli uffici, dei tempi che si allungano, della tranquillità perduta. Teresa Palmisano è un’operaia impiegata nel tessile di Martina Franca, il marito lavora in un impresa edile. Entrambi licenziati, lei da tra anni ormai, lui da novembre. Ha usufruito degli ammortizzatori sociali previsti, la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ora aspetta la cassa in deroga, quella garantita dalla Regione, dato che quella statale si è esaurita.

È l’ennesima vittima di quella crisi del settore tessile che sta lentamente erodendo tutto il tessuto produttivo martinese, arrivando al licenziamento di più di metà degli addetti. La crisi del settore viene moltiplicata per la crisi sistemica che sta colpendo il credito, le banche. Non essendo un periodo roseo e non potendo rischiare, queste sono restie a prestare denaro alle aziende per gli anticipi sulle commesse. Le ditte, soprattutto le più piccole, le contoterziste, chiudono per sempre. Nel frattempo in città tutto scorre come se nulla fosse, ma il fiume pestifero di disoccupazione ha la fonte molto in alto (la ditta di Teresa, la Fides, ha licenziato 37 dipendenti tre anni fa) e non se ne intravede la foce.

La settimana scorsa, Teresa prende carta e penna e scrive una lettera ai giornali, per raccontare quello che sta accadendo. La incontriamo alla Camera del Lavoro di Martina Franca, dove ogni giorno aiuta gli altri come lei a sbrigare pratiche.

Cosa ti ha spinto a scrivere?

L’impossibilità di tenermi tutto dentro, la rabbia di vivere questa situazione, l’impossibilità di risolvere. Non sono una che si lamenta, non racconto la mia esperienza a tutti. Non so cosa mi sia preso, ma ad un certo punto non ce l’ho fatta più.

Rabbia contro chi, contro cosa?

Contro la situazione, l’impossibilità di vivere normalmente, contro il Governo, che sembra consideri me e quelli nella mia stessa condizione come ferri vecchi da buttare, da mettere da parte. Mi sento messa da parte, di non poter fare nulla. Sono arrabbiata con gli uffici che bloccano le pratiche, con la lentezza dell’Inps. L’altro giorno sono andata all’Inps, all’ufficio di Martina, per chiedere notizie sulla pratica della mia cassa in deroga. L’impiegato mi ha risposto che dipende dall’azienda, e non da loro. Bene, ho dovuto spiegare all’impiegato dell’Inps di Martina come funziona: una pratica del genere è di competenza loro e non dell’azienda. Poi ce l’ho con chi nonostante è in cassa integrazione, chi ha l’assegno di disoccupazione, lavora a nero. Con i pensionati che lavorano a nero.

Dove lavorano a nero?

In alcune aziende, che preferiscono avere manodopera non regolare. Tante delle mie ex colleghe lavorano, anche se sono in cassa integrazione. Mi chiedo se sia giusto che uno abbia il doppio stipendio e noi in casa nemmeno uno.

Cosa succede in casa tua?

Io prendevo mille euro di cassa integrazione straordinaria, che si è bloccata a novembre. E il 15 di quel mese mio marito ha perso il lavoro. Lui guadagnava ottocento euro e, tolti i trecento di affitto, riuscivamo a vivere bene, mantenendo una figlia di dodici e una di sei anni. Ma ora niente. Da novembre in casa nostra non entra una lira. E tutto si sta rompendo, non c’è più tranquillità. Con mio marito, con mia figlia grande che non capisce cosa sta accadendo e non vuole sentirsi diversa dalle sue amiche. Gli unici soldi che entrano sono quelli che guadagno arrangiandomi a fare le pulizie. Cento euro ogni due settimane.

Come si fa a vivere con duecento euro al mese?

Ci arrangiamo. Io faccio tutto in casa. Con cinquanta centesimi di farina faccio tre chili di pane. La salsa per la pasta la faccio io, macinando i pomodori. Cerco di andare il meno possibile al supermercato. Naturalmente abbiamo rinunciato ad uscire la sera, e quando vado al mercato vado solo per guardare…

Nonostante tutto però passi molto tempo al sindacato.

Già, mi fa pensare di meno a quello che mi aspetta a casa. Poi mi piace imparare, soprattutto quello che riguarda il lavoro, per evitare di essere presa in giro. Così mi metto a disposizione di chi come me viene dallo stesso settore e mi chiede una mano.

Cosa ti aspetti, cosa vorresti che accadesse?

Sono sicura di non essere l’unica in queste condizioni, ce ne sono tanti come me e tante famiglie che sono costrette ad indebitarsi per pagare le bollette, l’affitto. Non è possibile che non si faccia niente, che non si lotti per uscire dalla situazione. Non c’è bisogno dell’elemosina, non ne voglio. Due settimane fa sono andata dal sindaco per parlargli della mia situazione. Non volevo un aiuto economico, ma che partecipasse con noi alla nostra lotta, che prendesse a cuore la situazione di tutti quelli come me. Ma forse non ha capito: ha promesso di trovarmi lavoro…

il Comune di Pandora

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La notizia arriva in una domenica mattina nevosa. Petrucci, Tommasino e Conserva “u lueng”, ex sindaco di Martina, sono stati indagati dalla Procura di Potenza per vari reati “non necessariamente correlati tra loro”, peculato, corruzione. In particolare, l’articolo di Diliberto di ieri su Repubblica metteva in luce una cosa già nota ai più attenti: il lavoro di certosino smistamento delle denunce che arrivavano sui tavoli della Procura. Di questo se ne aveva già sentore quando ci si interrogava sul motivo per cui alcune istanze andassero avanti e altre no. In particolare come mai con tutto quello che accade al comune di Martina, tra tangenti et similia, nessuno sia mai intervenuto. Noi che in questo paese ci abitiamo, subiamo ogni volta i ricatti da parte di quella comitiva di pagliacci che occupa i nodi cardini dell’amministrazione burocratica martinese. Se vogliamo aprire un negozio, fare un concerto, chiedere una carta, un documento qualsiasi, diventa sempre un’impresa, un’avventura. Le normali funzioni dell’amministrazione, o meglio, della burocrazia che non dovrebbe avere nessun tipo di colore nè di appartenenza, diventano privilegi, favori, a cui poi, naturalmente bisogna corrispondere. Non esiste un regolamento che tenga, le cose si fanno o no, solo se convengono alla cricca di pagliacci che tiene in piedi la barracca. Con questo modo di fare, si legano gli uni agli altri in doppi fili di ricattabilità, di malafede. L’inchiesta della Procura di Potenza va a colpire uno dei tanti aspetti del cancro locale, uno dei sintomi più evidenti, ma non l’unico. Quello che accadrà è già scritto, è già visto: chi è stato colpito accetterà di buon grado che intorno a lui si faccia terra bruciata, che gli amici si nascondano o spariscono, temporaneamente, giusto il tempo di far calmare le acque. Poi tutto tornerà come prima. Perchè quello che è stato colpito è solo il livello politico, quello con una faccia e un nome, quello che, nel bene o nel male, ci mette la faccia. In questo modo è sempre quello più esposto, quello immediatamente riconoscibile nel bene o nel male. Ed infatti è sempre quello che ne paga le spese. Come in questo caso.

Ma se si cerca una prospettiva che esuli un attimo dalla rabbia, è palese che a Martina tutto c’è fuorchè un livello politico. Partendo da sinistra ed arrivando a destra è tutto un correre verso il centro, come se l’arena politica fosse una coppa di insalata. Ma il centro non corrisponde necessariamente ad idee democristriane, ma alla confusione pura, una corsa all’omologazione che ha come leit motiv il qualunquistico pensiero che la gente vota chi è più uguale. In base a questa legge idiota, tutti cercano posto dalle parti del centro, per essere più mimetizzati e, all’occorrenza, utilizzabili. Se si analizza la questione da un punto di vista politico. A Martina concorrono altri fattori invece. Primaditutto è utile dire che la scelta elettorale non è legata, nella maggior parte dei casi, a scelte politiche ma a forzature, a ricatti spesso occupazionali. Perchè tutti hanno un figlio da sistemare, un nipote da sposare, una rimessa da ristrutturare, tutti hanno motivo per essere ricattati, utilizzabili, ognuno è un voto e ogni dieci voti è mezzo favore.

Per questo è necessario che il livello politico sia debole, incopentente, possibilmente ricattabile tanto o di più dei singoli cittadini. I consiglieri candidati sono spesso persone costrette a mettersi in lista, e ogni posto in lista ha un prezzo. Naturalmente il loro potere reale, una volta eletti, sarà nullo, perchè avranno da ringraziare altri, da ricambiare altri favori. Quello che è importante, a Martina, è la continuità del potere. I candidati consiglieri, se si va a vedere la loro attività prima di mettersi in politica, hanno sempre il bisogno di un permesso, di un’autorizzazione, di una carta. Tutti possono, o devono, essere bravi ai diktat che arrivano dall’ufficio in fondo. Ed è l’ufficio in fondo il problema, quello che non viene toccato dalla indagini, quello che non deve essere eletto, quello che non deve mettere la propria faccia.

In un sistema che si regge sui favori, sui privilegi, sulla trasformazione della normale amministrazione in qualcosa di particolare, fatto ad personam, gli aggettivi si sprecherebbero e le analisi direbbero che il Palazzo Ducale è sede di una cupola mafiosa, per gli atteggiamenti e i modi di fare. Certo non si spara, non si uccide, ma le richieste dei cittadini che scelgono di non sottostare al Feudatario dell’ufficio in fondo vengono sciolte nell’acido del dimenticatoio, dei cavilli legislativi a cui non si può chiudere nessun occhio.

L’inchiesta della Procura di Potenza potrebbe essere l’inizio di un cambiamento, se sfruttata bene da quella parte di società trasversale, stufa di essere marionetta o burattino, stufa di feudi e di favori, di cortesie criminali di consorterie manco tanto occulte. Ma non accadrà. Gli organi di informazione non ne parleranno, perchè gli inserzionisti non pagherebbero la pubblicità, perchè non cambierebbe niente. Chi chiederà di andare a fondo sarà zittito, isolato, messo da parte.  I cittadini faranno finta di dimenticare, ma perderanno ancora una volta la fiducia nel sistema e non pochi di loro spereranno in un lider forte che tutto risolva. Quelli dell’ufficio in fondo faranno i buoni per un po’, per poi iniziare di nuovo a dividersi la città.

Questo è il comune di Pandora, chi avrà la curiosità di aprire il vaso?

Chi ci guadagna dalla campagna sulla sicurezza

La campagna per la sicurezza messa in piedi da Berlusconi e i suoi accoliti, a prima vista sembra una chiara dimostrazione dell’indole neofascista del Governo, che indica, in un momento di crisi strutturale del sistema capitalista, come “untore” o causa del Male assoluto, l’Altro, l’immigrato, diverso da noi perchè vittima del proprio istinto animalesco a violare, fare del male, ma a ben guardare, non è nient’altro che un altro esempio della terribile propaganda di cui siamo vittime. Questa campagna, che può sembrare razzista ad un primo sguardo, ma che cela risvolti ancora più inquietanti che di seguito spiegheremo, è supportata da un sistema mediatico disinformativo che addirittura, come fa il Corriere della Sera tramite una delle sue penne di punta, indica nello stupro l’atto rituale attraverso cui gli Invasori, gli immigrati, dimostrano a noi (noi chi?) di aver conquistato la Patria. Evitando giudizi di merito sul concetto di Nazione, Patria, la cui a-storicità e a-scientificità riempirebbero troppe pagine, vorremmo soffermare la nostra attenzione su chi e cosa trae giovamento da questa campagna disumana. Il razzismo è una buona scusa per racchiudere alcune scelte berlusconiane, e leggere alcuni eventi in questa chiave è legittimato dalla presenza nella compagine governativa di gruppi di bovari nordici saliti al rango di deputati, ma il razzismo è un modo per solleticare la fantasia popolare e dare in pasto al suo giudizio colpevoli immediatamente riconoscibili di pesanti disagi. Se il lavoro è merce rara, secondo la formula razzista, è colpa dell’africano che lo ruba, e non perchè l’africano senza documenti e quindi senza diritti, costa meno e rende di più in termini di ricavo da parte del padrone. Il costo del lavoro è il centro della questione: se il capitale si sposta verso luoghi in cui il costo del lavoro è basso o bassissimo, i lavoratori si spostano verso luoghi in cui il costo del lavoro è più alto: gli imprenditori italiani aprono fabbriche in Romania, i lavoratori rumeni cercano lavoro in Italia. Con l’entrata della Romania nell’UE e quindi in Shengen, i lavoratori rumeni hanno avuto libertà di movimento nei paesi dell’Europa occidentale e quindi la possibilità di cercare lavoro senza la necessità di un permesso di soggiorno. Questo, è ovvio, ha svuotato di braccia la Romania e ha creato problemi ai vari imprenditori alla ricerca di manodopera a basso costo. In questa differenza tra offerta e domanda di lavoro, si inserisce la campagna mediatica contro “lo stupratore rumeno”, che non è altro che un modo per ovviare Shengen attraverso la criminalizzazione di un gruppo di individui, il cui lavoro costa di meno in patria che non in Italia. A supporto di questa tesi, ecco un passaggio dell’articolo pubblicato sulla rivista di Confindustria “L’imprenditore” di aprile dello scorso anno, in cui si intervista Marco Tempestini, presidente di Unimpresa Romania. Alla domanda dell’intervistatore: Che mercato offre la Romania agli imprenditori italiani?, Tempestini risponde, dopo aver elencato un alto numero di vantaggi, soprattutto dal punto di vista del costo del lavoro ([…] un costo della manodopera sicuramente in aumento, ma a livelli ancora bassissimi, rispetto a quelli dei paesi europei […]), parla di un “rovescio della medaglia” : “la propensione all’emigrazione sta depauperando le risorse umane a disposizione delle aziende[…]“.

Caro Babbo Natale…

La letterina a Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

mi chiamo Massimiliano e sono un giovane abitante di Martina Franca. Volevo dirti che quest’anno non sono sempre stato buono, qualche volta mi sono incazzato, e qualche volta mi sono comportato male, ma ho sempre cercato di essere bravo e buono. Quest’anno, caro Babbo Natale, ho pagato tutte le tasse, alcune aumentate del 50 percento, come quella sulla spazzatura, ma non perché ho ingrandito la mia casa, ma perché il Comune si è beccato una bella multa e dobbiamo pagarla tutti. I maligni dicono che è colpa degli amministratori che, nonostante le sentenze dei giudici e le leggi della Regione, non fanno una nuova gara d’appalto per lo smaltimento. Io credo che lo facciano perché hanno a cuore le sorti dei dipendenti della Tradeco.

Caro Babbo Natale, quest’anno qualche volta mi sono lasciato andare a brevi turpiloqui. Quando ero nel traffico soprattutto, perché mi scocciavo di metterci mezz’ora da Cristo Re all’Ospedale. Immagino che scorazzando tra le stelle con le tue renne non hai problemi di doppie file che intralciano il passaggio, di cerebrolesi che ti guardano sorridendo sorseggiando caffè mentre la loro macchina blocca la tua, di soste espressioniste al centro strada, di signore troppo impellicciate per capire che lo spazio vuoto tra due auto è un parcheggio dove poter lasciare il loro ingombrante inutile Suv. Mi sto innervosendo, ma mentre ti scrivo, caro Babbo Natale, rivivo le scene che accadono quotidiane.

È stato un anno allegro, quasi, tranne che per due miei amici che si sono sposati e non riescono a trovar casa, che ci vorrebbero un po’ di mutui subprime anche qui da noi. Lo sai che una casa arriva a costare 3600 euro al metro? Sono sicuro che da voi in Lapponia non è così. Questo fatto mi ha intristito e se mi intristisco mi arrabbio un po’, e me la prendo con gli amministratori che, poveretti, sono troppo impegnati per pensare al piano regolatore.

È stato un anno molto intenso. Al giornale ci sono stati nuovi acquisti e tutti abbiamo un po’ acquisito esperienza. Ma la vita del cronista, sia esso di cronaca o di sport, di inchiesta o di politica, non è mai semplice e spesso, a causa dell’abitudine a leggere i fidi scribi, sembra che il lavoro fatto non valga nulla. Ma noi non ci arrendiamo e anzi ti chiedo che questo Natale mi porti un po’ di pazienza e di cortesia nei confronti di chi è re in paese ma già all’altezza di San Paolo conta come il due di briscola.

Vorrei la capacità di raccontare a tutti, senza la paura di non essere capito.

Sotto l’albero la mattina del 25 spero di trovare splendente lo spirito cristiano dell’accoglienza, che gli abiti talari non indichino solo arringhe vigorose ai fedeli intruppati ma scarpe sporche di fango e mani che abbiano toccato la povertà.

Vorrei aprire un pacco e trovare il modo perché la gente non veda nei ragazzi dell’Hotel dell’Erba dei concorrenti nella miseria ma dei fratelli vittime anche loro degli stessi meccanismi che divide il mondo in sfruttati e sfruttatori.

Anche se non sono stato un esempio di bontà, ti chiedo, Babbo Natale, di portarmi un paio di forbici magiche per tagliare i fili tra i vertici delle piramidi di potere che impoveriscono le nostre terre e le nostre menti e le persone normali, laboriose, oneste, costrette ogni giorno ad inchinarsi perché ci fanno credere che i nostri diritti non sono nient’altro che privilegi.

Portami una gara d’appalto per i rifiuti, affinchè anche a Martina si possa fare un po’ di raccolta differenziata. Regalami un’idea per spiegare agli imprenditori della zona industriale che non possono usare i cassonetti normali per gettare i rifiuti delle loro imprese, perché altrimenti a pagare siamo noi cittadini. Regalami un po’ di buon senso da mettere sotto il tergicristallo delle macchine parcheggiate in doppia fila. Regalami un vigile personale che multi chi non sa guidare.

Babbo Natale, se c’è spazio nel tuo sacco ti chiedo un chilo di saggezza, da donare ai nostri amministratori, affinchè capiscano che governare non significa emettere ordinanze contro chi sputa o emette flatulenze, ma timonare una nave che non deve affondare.

Vorrei un po’ d’ordine, per favore, nel nostro Ufficio Tecnico, perché mi dispiace che spesso si perdano le carte.

Vorrei un po’ di sicurezza, se è possibile, vorrei poter sognare una prospettiva e un futuro e non ringraziare di essere arrivato alla fine del mese.

Per ultimo, caro Babbo Natale, ti chiedo di trovarmi quella scatola di giocattoli che quand’ero bambino mio padre mi comprò dal negozio sotto casa, quella dove c’erano le casette in plastica colorate, da assemblare. Quella scatola che stava in vetrina in quel negozio di giocattoli che ora non c’è più.

“La Legge Carfagna è un tradimento”

Nonostante si dica che è il mestiere più antico del mondo, le discussioni sulla prostituzione sono sempre all’ordine del giorno. Soprattutto quando quest’argomento viene alimentato dalle polemiche prodotte dall’incapacità politica di affrontare il problema. Nel frattempo che ministri preti e soubrette si affrontano nell’arena televisiva, migliaia di ragazze sono per strada o chiuse in appartamenti oppure in viaggio verso l’Italia con la falsa speranza di intrecciare capelli o fare le badanti. Se da una parte si deve arginare il fenomeno intervenendo in maniera repressiva, dall’altro è necessario incrementare l’azione di protezione sociale che può permettere a queste persone, spesso vittime inconsapevoli di traffici assai lucrosi, una via d’uscita, condividendo le buone pratiche che il privato sociale ha sperimentato negli anni. Di questo si è parlato a “O-Scena: Le trame indicibili e invisibili della violenza sulle donne” in un convegno tenutosi giovedì 16 a Trani, organizzato dalla cooperativa sociale “Comunità Oasi2 San Francesco”. La giornata, che rientrava nelle attività previste dal progetto Interreg Italia-Albania chiamato “Shtepi” (casa), che prevedeva la collaborazione delle realtà pugliesi e albanesi che lavorano con chi è vittima di tratta e sfruttamento sessuale, ha visto il succedersi di molti interlocutori, che hanno condiviso con la platea le proprie esperienze riguardo l’argomento. Era impossibile, dato il tema, non commentare la famigerata legge Carfagna. Lo hanno fatto in maniera originale, da un punto di vista scientifico, dato che si tratta di addetti ai lavori, il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, Giuseppe Scelsi e la professoressa Patrizia Resta, antropologa dell’Università di Foggia. Nelle parole del sostituto procuratore, la legge Carfagna viene descritta pressappoco come un “tradimento”, da due prospettive diverse. La prima riguarda tutta la giurisprudenza internazionale, ossia la direzione che i legislatori hanno dato per la risoluzione del problema. Se sia nella storia del diritto locale ed europeo, si è cercato di concertare l’azione repressiva con quella inclusiva e di protezione, il disegno di legge della Ministra rende vani tutti gli sforzi fatti finora. Cacciando le prostitute dalla strada si nasconde il reato, il suo corpo, e questo rende più difficile l’intervento delle forze dell’ordine e degli operatori sociali. Il secondo “tradimento” è più intimo, e riguarda il contesto sociale ed emozionale da cui questa legge scaturisce: la paura. A tradire in questo caso è quello che non viene espresso ma che rimane implicito: la paura di questo fenomeno. E per paura si nasconde, si allontana dalla vista, dalla percezione. Il problema non solo non viene risolto ma viene allontanato dai sensi, applicando la terribile legge della propaganda: quello che non c’è non si vede. 

Alle parole di Scelsi fanno eco quelle della professoressa Resta che del fenomeno invece si occupa da un punto di vista scientifico. Al centro del suo discorso c’è il ruolo della cultura, intesa come produzione e diffusione delle conoscenze, e dell’importanza di essa nei cambiamenti sociali. Porta l’esempio della prostituzione albanese degli anni novanta, quando sulle strade pugliesi c’erano decine di ragazze provenienti dall’altra parte del Canale d’Otranto. Il meccanismo di reclutamento delle giovani donne era semplice: venivano fatte sposare con alcuni uomini con la promessa di un futuro migliore in Italia ma, sbarcate in Puglia venivano mandate per strada. Un tipo di organizzazione necessario perché le rigide leggi del Kanun, della tradizione orale albanese, impediva alle ragazze di lasciare la propria casa se non sposate. Solo attraverso l’attento studio del fenomeno e la sua divulgazione attraverso i mezzi di comunicazione anche albanesi ha permesso di arginarlo, intervenendo direttamente a monte del problema: le famiglie. Venendo a conoscenza del meccanismo perverso, i padri hanno impedito che questo si ripetesse oltre. Questa stessa pratica potrebbe essere usata per la versione moderna del meretricio, che vede per strada invece ragazze prevalentemente africane, nigeriane, andare alla radice e capire per intervenire direttamente a Benin City. Ma questo diventa difficile se, invocando un senso del pudore fittizio, funzionale alla propaganda politica, il fenomeno viene occultato, come la polvere sotto il tappeto. Oscene non sarebbero più le violenze ma le donne stesse.

Un movimento di opinione di operatori sociali e di addetti ai lavori si sta muovendo per impedire che la legge Carfagna renda nullo il lavoro di anni, fatto all’insegna della protezione e dell’inclusione delle ragazze vendute e comprate, vittime di un traffico malvagio. Antonella De Benedictis, responsabile dell’Area Immigrazione dell’Oasi2 non lesina parole dure nei confronti dei possibili scenari futuri che, sulla base del detto “occhio non vede, cuore non duole”, impediranno fattivamente alle organizzazioni sociali di intercettare le vittime del traffico di esseri umani, lasciandole per sempre in balia dei loro sfruttatori.