Il 2010 di OfficinaNarrativa

Di seguito un report direttamente da WordPress.

The stats helper monkeys at WordPress.com mulled over how this blog did in 2010, and here’s a high level summary of its overall blog health:

Healthy blog!

The Blog-Health-o-Meter™ reads Wow.

Crunchy numbers

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A Boeing 747-400 passenger jet can hold 416 passengers. This blog was viewed about 7,600 times in 2010. That’s about 18 full 747s.

 

In 2010, there were 11 new posts, growing the total archive of this blog to 63 posts. There were 8 pictures uploaded, taking up a total of 4mb.

The busiest day of the year was December 18th with 280 views. The most popular post that day was Roberto Saviano non è il mio eroe.

Where did they come from?

The top referring sites in 2010 were facebook.com, current.com, search.conduit.com, oknotizie.virgilio.it, and kilombo.org.

Some visitors came searching, mostly for cassonetto, la scuola è finita, masseria russoli, officina narrativa, and masseria russoli martina franca.

Attractions in 2010

These are the posts and pages that got the most views in 2010.

1

Roberto Saviano non è il mio eroe December 2010
21 comments

2

Mistero Galbanino. Risolto l’arcano dello spot. September 2010
7 comments and 1 Like on WordPress.com,

3

Foto dalla Masseria Russoli e asini di Martina Franca (13 marzo 2009) March 2009
1 comment

4

Il passo transumante July 2009
18 comments

5

Riforma Gelmini: 250 posti in meno solo in provincia di Taranto September 2009
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I mandanti della strage di Filandari

Mi viene da iniziare con: “io so ed ho le prove”, ma è una frase abusata ultimamente. Eppure non trovo attacco più adatto per tentare di raccontare cosa è successo in Calabria, Filandari, in provincia di Vibo Valentia, nel tardo pomeriggio di lunedì scorso.

Una famiglia sterminata da un’altra famiglia per motivi di terra, per la “roba”, come si sono affrettati a dire alcuni commentatori, facendo sfoggio di cultura verista. Una notizia che fa notizia perchè il mandante questa volta non è un boss di qualche ‘ndrina, ma un capofamiglia qualsiasi che decide di punire/vendicarsi di quei vicini che si approfittavano della sua terra per far pascolare le vacche o le pecore.

Un problema di attaccamento alle proprie cose, il risultato della cultura familistica del sud profondo, della Calabria Saudita, come ci ha prontamente ricordato Libero, un problema di struttura più che di contenuto, qualcosa che arriva dalla radice profonda del calabrese. Mi sorprende, a dirla tutta, che nessuno abbia tirato in ballo l’atavica lotta degli allevatori contro gli agricoltori e viceversa.

Eppure, c’è qualcosa che non mi quadra.

Non mi quadra la faciloneria con cui si bolla tutto come un problema culturale e quindi non malavitoso, un problema endemico, congenito del sud più profondo, la leggerezza con cui si bolla tutto con: da quelle parti si usa così, che ci vuoi fa’?

Non quadra.

Non quadra perchè avrebbe senso se Filandari fosse un’isola spersa nel mar dei Sargassi, se fosse un satellite sperduto di Urano, se fosse in una grotta di un cratere di Marte.

Filandari invece è un paese in provincia di Vibo Valentia, in Calabria, nell’Italia dei 150 anni, nell’Europa dell’Euro, nell’anno del Signore 2010 (quasi 2011). Filandari è qui e ora, appartenente allo stesso mondo di Nespoli, dell’astronauta che scatta dallo spazio una foto che riprende le mille luci dello Stivale nelle notti natalizie.

Non quadra, per niente, che i maschi della famiglia Fontana siano stati levati dalla faccia della terra per l’arcaico attaccamento alla “roba”, che lava le offese col sangue, che risolve i problemi col calibro 9, che mette pietre a forma di croce sopra le discussioni.

La cultura, ci insegnavano all’università, è il risultato dell’ambiente umano, del contesto sociale, del paesaggio geografico. La cultura dipende dai riti che ci tramandiamo da padre in figlio all’ultimo libro letto, dal Tg di Minzolini ai programmi di Fazio. Nel mondo 2.0, mentre Wikileaks abbatte le frontiere del segreto diplomatico, sui monti calabresi si ammazza ancora per un ramo spezzato. Non quadra.

Non quadra a meno chè non ci allontaniamo dal livello locale e proviamo ad alzare lo sguardo. Ci accorgiamo allora che queste cose trovano fondamento in un sistema che, a diversi livelli, legittima l’essere con la quantità dell’avere, che definisce di successo un uomo con il SUV e una velina abboccata tra le sue gambe. Un sistema che arricchisce la criminalità organizzata grazie ai suoi vizi. E non viceversa.

Ad un livello più alto, senza arrivare alle altezze della stazione spaziale MIR, ci accorgiamo che alcune affermazioni, alcune parole, alcune frasi, sembrano ripetute più per sentito dire che perchè si abbia davvero contezza del significato. Quando si dice che lo Stato è lontano da questi luoghi (da Filandari, ma anche dalle strade della periferia di Andria, o dalle parti di Terzigno) si nomina il colpevole senza rendersene conto.

Sono i cittadini ad essere lontani dallo Stato o è lo Stato ad essere lontano dai cittadini?

Le due affermazioni non godono della proprietà commutativa: se le istituzioni (scuola, municipio, sanità, etc etc) sono percepite come distanti, vuol dire che, al netto delle motivazioni, esse lo sono davvero, perchè in una società di diritto non ci dovrebbero essere figli minori.

Eppure questo accade e sempre di meno ce ne scandalizziamo. Forse perchè siamo stati educati attraverso grandi opere di narrazione collettiva che se a Filandari una famiglia uccide un’altra è normale, perchè siamo nel meridione della monnezza e della camorra, del malaffare, della malasanità diffusa, della corruzione. Un Sud i cui cittadini sono vittime della Storia e non protagonisti, in cui il morso della taranta si è tramutato in qualcosa di più profondo, in cui le modalità di esserci seguono ancora schemi mentali medievali.

Dire che la strage di Vibo Valentia è un regolamento di conti tra due famiglie meridionali attaccate alla “roba” e lontane dal “diritto”, vuol dire contribuire a diffondere il meme (qui il significato della parola, e qui un esempio del loro potere) del Sud arretrato e medievale, brutale, animale, un modo di pensare razzista che non fa altro che legittimare comportamenti simili. Dire della strage di Vibo che accade perchè al Sud si usa così, vuol dire ammettere lombrosianamente che i meridionali sono diversi dagli altri, vuol dire ammettere che la “natura” degli uni è diversa da quella degli altri. In sintesi, significa essere razzisti.

Non ci sono leggi della terra, usanze tramandate di padre in figlio, nelle terre del sud dove “ci sono più pistole che forchette” queste cose accadono perchè lo Stato è assente, o quando c’è è corrotto e malaffarista, uno Stato i cui poteri forti collidono con le cupole mafiose, che tratta i cittadini come sacche di votanti, che si scandalizza se si ammazza, salvo poi proteggere le mani degli assassini, perchè, in fondo si è complici. Una questione di classe, in sintesi, in cui gli ultimi si ammazzano con i penultimi solo per divertimento dei primi che campano vampirizzando chi sta sotto di loro. I mandanti della strage di Vibo siamo noi meridionali che permettiamo che di noi si parli ancora in questo modo.

Roberto Saviano non è il mio eroe

Non è facile parlare di Roberto Saviano senza cadere in trappole linguistiche, barriere semantiche, tranelli del politicamente corretto. Eppure di Roberto Saviano bisogna parlare perchè è un personaggio pubblico, una persona che ha la capacità di influenzare l’opinione pubblica, perchè, in buona sostanza, detiene un potere.

E del potere bisogna parlare, perchè altrimenti il potere si tramuta in dominio e non possiamo che rimanerne soggiogati.

Ieri, dalle pagine di Repubblica, ha lanciato un accorato appello al movimento degli studenti chiedendo di dissociarsi dalla violenza che ha connotato una parte della manifestazione del 14 dicembre. Quello che emerge dalle sue parole è una sorta di aura di saggezza che vorrebbe infondere a chi lo legge.

Ma ieri è stata la lampante dimostrazione di quello che è diventato il fenomeno Saviano, oltre l’innegabile merito che deriva dal suo ruolo di giornalista e scrittore. Ieri Roberto Saviano ha preso carta e penna e ha recitato la parte di quello che dispensa consigli, rientrando perfettamente nel ruolo che la società gli ha affibiato. Quello di icona.

E quindi è dell’icona Roberto Saviano che diventa urgente parlare, del marchio, del simbolo, dell’ipse dixit da condividere sui social network, delle trasmissioni televisive costruite intorno a lui. Un giornalista che ha scritto di camorra, che ha fatto i nomi dei boss e dei killer, che ha raccontato le malefatte del “sistema”, che ha avuto minacce di morte e per questo è stato messo, giustamente, sotto scorta. Un simbolo, quindi, della lotta contro la corruzione, contro la mafia, contro i poteri occulti che manovrano nel buio e dispongono della nostra vita e della nostra morte.

Questo ha fatto di lui un eroe, dandogli un potere enorme, che ieri ha espresso (male secondo me) nei confronti del movimento.

E non tutti sono stati d’accordo (fortunatamente).

Criticare un eroe popolare come lui, nel panorama sociale che si è costruito nel tempo,  diventa automaticamente voler fare il gioco dei camorristi, accendere la macchina del fango. Fargli del male. Quindi guai a criticarlo.

Solo che sono le sue parole ad essere oggetto di critica, perchè delle sue parole discutiamo e ci confrontiamo, e farlo non significa non riconoscere a lui un ruolo importante. Le sue parole, pubbliche perchè pubblicate, devono essere lette con lo sguardo critico con cui leggiamo il resto. Non può una sua lettera essere un pontificato. E difenderlo acriticamente significa fare il gioco di coloro che tentano ogni giorno di lasciarlo solo. Perchè, è questo il punto, nel momento in cui il sistema mediatico in cui viviamo lo ha fatto simbolo/icona/eroe lo ha reso sacro, nell’accezione latina del termine, quindi diviso, distante, lontano da noi. Così lontano che Roberto Saviano è diventato LA lotta alla mafia e non un esempio di lotta alla mafia. La sua stessa esistenza è diventata simbolo e tutti ci siamo affrettati a riconoscergli la sacralità. Ma il risultato finale è che la dimensione della lotta alla mafia è stata definitivamente allontanata dalla misura dell’uomo comune ed è stata riservata a coloro che hanno le palle di sacrificare la propria vita. Roberto Saviano non è un esempio, ma L’esempio di cosa si deve fare per combattere il malaffare organizzato.

E sfido chiunque di noi ad avere gli stessi contatti, le stesse voglie, le stesse prospettive di Saviano.

L’icona Saviano è l’avvertimento che a combattere la mafia si finisce come lui: chiuso in caserma in mezzo ai carabinieri.

Quindi la dimensione del “sacro”, del “diviso”, che da un lato l’allontana da noi e dall’altro allontana noi da lui. Per questo le sue parole sul movimento sono pericolose, perchè arrivano da un livello metaterreno da cui parlano solo gli eroi. Le sue parole sono pericolose perchè a dirle è un simbolo, un’icona. E per questo non possono che essere accettate o negate, non criticate, mai confutate, altrimenti violento si manifesta l’anatema.

Roberto Saviano, se vuole, può essere il mio compagno, mai il mio eroe.

Di seguito due post critici nei confronti della lettera agli studenti:

“Lettera a Roberto Saviano” del collettivo Femminismo a Sud

“Risposta di Valerio Evangelisti a Roberto Saviano” di Valerio Evangelisti

Nel futuro ci aspetta Ghost in the Shell

“La prossima guerra sarà per catturare l’attenzione”. Con queste parole inizia il Public Camp 2010, il meeting dei comunicatori pubblici che si sono riuniti per il secondo anno consecutivo a Bari nell’ambito del Festival dell’Innovazione. Le parole con cui Eugenio Iorio, dirigente della Comunicazione Istituzionale della Regione Puglia, dà il via alle danze dell’incontro inaugurale “La società delle reti. Quando la comunicazione produce agire pubblico” fanno immediatamente capire qual è la posta in gioco in questi tre giorni in cui si alterneranno personaggi del calibro di Manuel Castells, Albert Làszlò Barabàsi e Michel Maffesoli, solo per citarne alcuni tra i più citati nelle lezioni di comunicazione. “In una società in cui la saturazione dell’attenzione (information-overload, direbbe Chomsky) rende ormai inutile la ripetizione all’infinito del messaggio, strategia che ha fatto la fortuna di Berlusconi imprenditore”, e ancora: “se la stagione dell’illuminismo è finita, le persone non si convincono più con gli strumenti della logica ma puntando alle emozioni”. Quindi “il terreno su cui si gioca la partita è la relazione”.

Immaginare la società del “futuro anteriore” è un compito che tocca anche ai comunicatori, a coloro che, scientificamente, costruiscono le narrazioni in cui viviamo quotidianamente, creando i nostri bisogni, i nostri miti, i nostri ideali. A Bari, nei tre giorni del Public Camp, si discute del mondo futuro citando Matrix e “Ghost in the Shell”, e non Marx o Smith perché, come dice Castells (e abilmente riportato nel materiale di comunicazione dell’evento): “[…] il potere si fonda sulla comunicazione”.

Il pensiero va immediatamente a internet, quindi, ai social network che tanto stanno influenzando il modo di interagire tra esseri umani. Iorio è chiaro fin da subito “non è vero che il web è democratico e libero”. E non tanto perché ogni nostra parola è controllata, ma perché i protocolli di funzionamento dell’intero sistema sono di proprietà privata, Google decide cosa dobbiamo trovare se cerchiamo “albergo a Roma” e Facebook archivia i nostri gusti personali in materia di musica, di politica o di religione.

Se condivido le foto delle vacanze con gli amici, inconsapevolmente sto contribuendo ad una ricerca di mercato. Con buona pace di Debord, siamo ingranaggi del sistema anche quando siamo in chat.

Il problema diventa tattico: capire chi detiene il potere permette di studiare strategie efficaci. Secondo i relatori è chiaro: sono gli influencer, quei nodi di rete che hanno un numero di contatti significativo che possono determinare non più la produzione di informazione ma la sua trasmissione, hub umani che gestiscono centinaia di contatti/relazioni. Lo spiega il fisico Baràbasi durante la sua lectio magistralis, portando gli esempi di tutte le strutture reticolari presenti in natura, le cui leggi di funzionamento non sono affidate al caso ma ad algoritmi precisi che non siamo in grado, ci scuserà chi legge, di riportare.

Il rischio, paventato durante la relazione introduttiva di Iorio, è che i meccanismi di comunicazione che fanno funzionare la rete, possano essere utilizzati anche a insaputa dei cittadini, per vendere uno shampoo o per insegnarci ad odiare i rom (per esempio).

Mentre l’evento inaugurale va avanti, sullo schermo di sfondo scorrono i twit che hanno per tema il Public Camp. Dai loro tablet, da i loro smart phone, gli studenti di comunicazione e gli addetti ai lavori, commentano gli interventi in diretta. In tipico stile 2.0.

La posta in gioco è il rapporto tra istituzioni e cittadini, tra pubblico e privato, tra democrazia e dittatura. Capire come funziona permette di prendere delle contromisure, attraverso strumenti tattici che, superandolo, sono la naturale evoluzione del mediattivismo degli anni novanta. Non Indymedia, quindi, ma “cavalli di Troia” che diffondano buoni significati. Capire come funziona è indispensabile anche perché quello che accade accada all’interno delle regole della società democratica. Nell’infinita produzione di micro narrazioni attraverso i social media, che mettono noi al centro del racconto, è fondamentale che gli obiettivi siano chiari per tutti, perché la trasparenza (dell’obiettivo, non come obiettivo) è requisito fondamentale della democrazia.

In un altro campo, in un’altra storia, Di Lernia, antropologo medico, parlando del rapporto tra chi cura e chi è curato dice che il potere è necessario affinchè possa essere combattuto lo stato di malessere, ma le regole tra paziente e medico devono essere chiare, concordate, trasparenti. Altrimenti il potere muta la sua forma e diventa dominio.

 

Dov’è la rabbia?

Dov’è la rabbia quando un premier si sollazza con le ministre e la gente si suicida perchè non trova lavoro?

Dov’è la rabbia quando le ministre diventano ministre solo perchè costano meno di una moglie e sono più ubbidienti?

Dov’è la rabbia?

Dov’è la rabbia quando Marchionne dice che l’Italia è una palla al piede?

Dov’è la rabbia quando muore un operaio?

Dov’è la rabbia quando ti dicono che purtroppo ti devono licenziare?

Dov’è la rabbia quando non prendi lo stipendio?

Dov’è la rabbia quando tutto aumenta e non puoi acquistare nulla?

Dov’è la rabbia quando i mafiosi al comune perdono i milioni di euro dei finanziamenti europei?

Dov’è la rabbia quando a costruire case è solo uno e detta il prezzo del mercato?

Dov’è la rabbia quando non vedi futuro, non vedi presente, non vedi vie d’uscita?

Dov’è la rabbia quando per vent’anni ti hanno insegnato a non fidarti dei comunisti, dei sindacati, dei pacifisti, degli ambientalisti, dei pazzi che dicevano che forse così non andava bene?

Dov’è la tua rabbia, quando ti licenziano, quando mettono in cassa integrazione tua moglie, quando tuo figlio ti chiede i soldi per i libri, ti chiede la palestra, la chitarra, quando la tua ragazza non ha un regalo da tre anni, quando il tuo ragazzo chiede aiuto per il mutuo?

Dov’è la rabbia, quella che unisce che ci fa urlare che ci fa correre, che ci mette insieme, che pretende i diritti, li afferra con i denti, la rabbia che sanguina giustizia e democrazia, la rabbia feroce della rivolta contro l’oppressione?

Dov’è la rabbia?

Dove?

Lasciata per strada in cambio di un auto nuova, soffocata sul divano tra soap e reality, svenduta per un posto a nero, stracciata e gettata come il gratta e vinci che ti ostini a comprare sperando di cambiare la tua vita.

Dov’è la rabbia quando ti fottono la salute e ti ricattano perchè o così o niente?

Dov’è la rabbia quando intorno non vedi che gente indebitata, oppressa, distrutta, quando basterebbe andare a bussare con insistenza a chi ha comprato i nostri diritti per un piatto di lenticchie prodotte in Cina?

Dov’è la rabbia che agita le strade, le menti, che stringe forte l’idea di un mondo migliore?

Dov’è un mondo migliore?

Nelle nostre scelte quotidiane, nella capacità di stare fermi un giro e guardare oltre, immaginare cosa sarà.

Cercate la rabbia, per favore, alzate tappeti, svuotate cassetti, sventrate gli armadi. Da qualche parte ci dovrebbere essere, magari arrotolata con il diario del liceo, con la bandiera di Che Guevara. Sempre che non l’abbiate scambiata per un abbonamento a Mediaset Premium.

Stare nel mercato

Non comprare è potere.

Non possiamo esimerci dallo stare nel Mercato. Ogni giorno, quasi ogni nostra azione ci fa interagire con il Mercato: compriamo, vendiamo, consumiamo. Stiamo nel Mercato, siamo il Mercato.

Ma così come scegliamo di stare nello Stato, supportando o contestando, manifestando o perorando alcune idee, alcune parti a discapito di altre, tentando in qualche modo di influenzare con le nostre azioni e le nostre parole l’andamento delle cose, così possiamo stare nel Mercato, tentando di influenzare con le nostre scelte le scelte di chi lo dirige.

La mutazione dell’individuo da cittadino (portatore di diritti politici) a consumatore (portatore di portafoglio) in un primo momento ha destabilizzato la nostra consapevolezza riguardo il potere individuale, ma a parte una resistenza che è stata a mano a mano fiaccata portandoci letteralmente alla fame, ben presto abbiamo quasi tutti trovato il nostro posto al caldo nel mondo-mercato globale.

Se così non fosse, la spinta a delocalizzare la produzione e quindi la tendenza ad allargare la forbice tra ricchi (sempre più ricchi perchè i costi di produzione sono cinesi e i prezzi al dettaglio sono occidentali) e poveri (sempre più in miseria perchè precarizzati e quindi impoveriti della capacità di costruirsi autonomamente un futuro, oppure addirittura ridotti sul lastrico a causa delle scelte di delocalizzazione) sarebbe stata sicuramente più difficoltosa. In parole povere cioè, se non si fossero annientate negli ultimi 20 anni le forme di resistenza al liberismo riducendole a poche enclavi di eretici, Marchionne non avrebbe avuto la libertà di dire quello che ha detto da Fazio.

L’individuo mutato in consumatore si ritrova quindi in un mondo ostile dove non ha nè il diritto di influenzare la scelta politica (la farsa del bipolarismo e l’eccessiva delega sono due esempi) nè il diritto di partecipare alle scelte ecomiche in maniera attiva, essendo stato estromesso violentemente dai processi di produzione.

L’individuo/consumatore può solo comprare. E il gesto dell’acquisto, sempre con i suoi naturali limiti, sembra essere l’unica espressione di libertà concessa nel 2010 ai cittadini. Perchè comprare significa possedere e il possesso è la misura dell’essere umano (nella società liberista). Se non hai un lavoro (se non puoi consumare) non puoi essere cittadino italiano (v. legge Bossi-Fini).

Possiamo però ancora scegliere COSA comprare e soprattutto DA CHI. In questa scelta si esprime tutta la potenza della libertà che ci è rimasta. Possiamo scegliere di non comprare i prodotti di Israele finchè non termina il genocidio palestinese, possiamo scegliere di non comprare Coca Cola per le sue politiche in America Latina e in Africa, possiamo scegliere di non comprare Nestlè perchè è la multinazionale simbolo dell’imperialismo, e via boicottando. Questa libertà di scelta deve però, secondo le necessità imposte dalla crisi, espandersi non solo ai simboli del male, ma anche a tutto quello che impoverisce il nostro territorio. Non comprare automobili Fiat potrebbe essere la migliore risposta ai piani di Marchionne, non vestirsi Miroglio (Elena Mirò, Motivi…) è il gesto più potente che possiamo fare.

 

Da Taranto a Roma con Di Vittorio

“Il lavoro è un bene comune” – con la delegazione tarantina alla manifestazione della Fiom

C’è Di Vittorio con noi nel pullman che ci porta a Roma alla manifestazione “Il lavoro è un bene comune” indetta dalla Fiom. La sua storia scorre attraverso le immagini della fiction Rai interpretata da Favino che scorrono sui teleschermi del pullman. Macinando kilometri, rivivendo la nascita della Cgil, diretti verso Roma a ribadire che non tutti sono d’accordo che il lavoro diventi la vittima sacrificale della crisi economica. Né il lavoro e né tantomeno i lavoratori. Soprattutto i lavoratori.

Partiamo da Taranto prima dell’alba, le luci dell’Eni e dell’Ilva brillano lugubri nel buio di questo sabato di manifestazione. Imbocchiamo la statale, poi verso Massafra e quindi sull’autostrada. Cinque sono i pullman che partono da Taranto, dieci da tutta la provincia. Operai, studenti, militanti, comitati di quartiere, operatori sociali, pensionati, migranti. Tutti diretti all’appuntamento a Roma: quando la Fiom chiama, non si può non rispondere.

La prima fermata è per il caffè, incrociamo due autobus di pellegrini con la foto della Madonna di Lourdes sul parabrezza. Sul nostro campeggia la scritta Fiom Pullman n. 4 e un pupazzo di Hello Kitty. Prima di salire i discorsi si fanno subito duri: i lavoratori somministrati Ilva, precari della metallurgia, si lamentano del fatto che non ottengono risposte né dall’azienda né dal sindacato. La questione è sempre la stessa: essere assunti, non essere assunti, rimanere precari o disoccupati. E poi c’è la questione ambientale, che emerge sempre e comunque ogni volta che si parla dell’Ilva. Nico chiude la discussione dicendo: «Non mi possono chiedere di barattare la città con un posto di lavoro».

 

La delegazione della Fiom di Taranto

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Pentassuglia sul congresso (bloccato) del Pd

Pensavo che questo sabato pomeriggio ci sarebbe stata una svolta nel Partito Democratico martinese, dato che si sarebbe celebrato il congresso cittadino. Arrivo con molta calma all’auditorium Cappelli, con 45 minuti di ritardo dall’inizio e trovo tutto spento, con due o tre persone che allestiscono il palco.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=WyxuGkFi0ZQ]

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Mistero Galbanino. Risolto l’arcano dello spot.

Finalmente svelato il mistero della pubblicità che indica Erice e mostra Martina Franca. In una comunicazione dell’ufficio stampa della Galbani l’arcano che per giorni ha tenuto banco in città e sul web. Nel comunicazione si legge che lo spot doveva essere inizialmente girato interamente in Sicilia, ma per un problema “tecnico” la troupe è stata costretta a rimanere in Puglia. Da qui la scelta, dati i tempi di consegna e di messa in onda dello spot, di girare la parte rimanente del film in Puglia, a Martina, per poi montare insieme i pezzi.

Da qualche giorno lo spot che passa in tv è modificato, manca la parte con l’insegna stradale. È vero che si sono accorti dell’errore, ma nel frattempo lo spot incriminato è andato in onda per parecchi giorni.

Poco male, era solo la pubblicità di un formaggio fuso buono per i panini. Solo che è diventato un argomento di sgomento, di indignazione. C’è chi proponeva di boicottare lo spot, chi di non comprare più Galbani, chi cambiava canale ogni volta che passavano le immagini in tv.

In sintesi si diceva che era un’offesa alla città.

Un’offesa alla città.

Una città sventrata dai cantieri edili di dubbia legittimità.

Una città che vede la propria classe dirigente galleggiare ignorante nella propria inerzia.

Una città che ha i dirigenti comunali accusati di essersi decuplicati indebitamente gli stipendi.

Una città il di cui sindaco dichiara di essersi abbassato lo stipendio quando in realtà ha semplicemente eseguito una direttiva ministeriale.

Una città la cui giunta stanzia 390000 euro per mettere le telecamere di videosorveglianza.

Una città in cui non si riesce a fare un concorso pubblico che non sia truccato, inquinato, falsato, venduto dalla solita cricca di mediocri baroni che sono sempre lì (se volete vi do l’indirizzo).

Una città che ha perso il suo tessuto produttivo, con migliaia di operai disoccupati, con decine di imprese fallite, famiglie sul lastrico.

Una città che si indigna perché non viene citata nella pubblicità di un formaggino.

Bene, almeno una cosa l’abbiamo risolta.

PS: pare che dell’errore geografico ce ne siamo accorti solo noi, dato che qui, in un articolo di una testata web del nord barese in cui si parla dell’attrice che interpreta la mamma nello spot, non si siano resi conto che le immagini si riferissero a Martina. Ci dispiace un po’ anche per loro.

Daniele Durante sulla Notte della Taranta

In esclusiva (per tutti gli utenti internet e in anteprima su Officina) un paio brevissime di battute di Daniele Durante, fondatore del Canzoniere Grecanico Salentino, sulla Notte della Taranta.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=VES3dWgoTVw]

Non c’è tempo per entrare nel merito delle sue parole o in cosa è davvero la Notte della Taranta. Si può solo dire che, ad ascoltare bene le parole di Durante,  c’è tanto da riflettere.