Essere efficaci sul web non è un caso (un tentativo di analisi)

Dando ormai per scontato che le conversazioni online sono capaci se non di generare, quanto meno di alterare il contesto reale, consigliandoci di votare o di acquistare o di pensare qualcosa o qualcuno, essere in grado di gestirle è la chiave per assumere una posizione dominante. Ci sono diversi modo per influenzare dinamiche che ai più sembrano casuali:

  • Attraverso l’azione dei Serch Engine Optimizer (SEO) che influenzano i risultati delle ricerche di Google, facendo salire o scendere nelle pagine di ricerca un determinato sito (proprio ieri durante una riunione mi sono trovato nelle condizioni di spiegare che i primi posti del motore di ricerca non sono riservati necessariamente ai “migliori” siti, ma spesso a quelli meglio “indicizzati”)
  • Attraverso l’intervento di esperti di social media che non sono i diciottenni che smanettano e hanno 2000 amici, ma sono quelli che riescono a dire o a fare l’azione giusta al momento giusto con lo strumento giusto.

Siamo ancora in una fase sperimentale, nel giro di pochi mesi vengono  pubblicati saggi che confutano altri saggi che confutano altri saggi. Usare Facebook e compagnia twittando per una campagna elettorale o per vendere un prodotto (la differenza potrebbe non essere percepita da tutti) o per organizzare un’azione politica per quanto possa sembrare un gioco da ragazzi, molto spesso non lo è. E’ una questione di economia in fondo: il massimo risultato con il minimo sforzo. Ecco perchè riuscire a costruire la rete dei contatti di un gruppo significa partire avvantaggiati rispetto agli altri che, nonostante spammino a tutto spiano, non riescono ad ottenere gli stessi risultati. Lo sanno bene coloro che stanno dietro le quinte delle campagne elettorali che alla politologia preferiscono la fisica applicata alle reti.

Ho fatto una prova di analisi della rete del gruppo Facebook degli ex-corsisti di Running (un gruppo piccolo, di poche centinaia di nodi): quello che ne viene fuori l’ho spiegato brevemente in questa presentazione

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Aggiungo alle poche righe del documento, una considerazione: se si osserva bene la rete e se si conoscono le dinamiche, diviene chiaro che non necessariamente bisogna puntare al nodo più grosso perchè un messaggio abbia massima diffusione. Basterebbe trovare un nodo che sia in contatto con i nodi maggiori attraverso relazioni biunivoche.
Chi potrebbe essere?

Distributore in Valle d’Itria. Le ragioni di un “perchè?”. (Ma la Sovrintendenza non ne sapeva nulla)

(grazie a bradipodellavalle.blogspot.com)

Sorprendente è la reazione al movimento di opinione sulla costruzione di un distributore di benzina in Valle d’Itria. Da un certo punto di vista è straordinario vedere la partecipazione, la fiducia, l’incontro, lo scambio di opinioni di centinaia di persone che non si conoscono nemmeno ma condividono un punto di vista, dall’altro invece è triste vedere gli strumenti messi in campo per far sì che la domanda posta dal gruppo “perchè?” passi in secondo piano, spostando l’asse del discorso sul “perchè voi non la volete?”. La mossa tattica è scontata perchè passare dalla pretesa di una risposta politica da parte dei rappresentanti consiglieri si passa all’elenco di autorizzazioni ottenute. La risposta quindi, non esaurisce più la domanda “cosa vi ha spinto a farlo” ma “mi fate vedere i documenti?”. Ecco, a questo punto del percorso penso sia doveroso mettere dei paletti: le autorizzazioni servono per i Carabinieri e per il TAR, per noi cittadini indignati servono risposte brevi e concise alla domanda che ci troviamo costretti a ripetere: “Perchè costruire un distributore in Valle d’Itria?”.

A questa domanda attendiamo una risposta, che non può essere “ci saranno i muretti a secco”.

Il movimento questuante si muove su istanze politiche e non esclusivamente ambientali. E per politiche intendo: “quale progetto di territorio sta alla base dell’autorizzazione alla costruzione di un distributore in piena Valle d’Itria?”. Questa è la domanda completa, a cui ovviamente non accetteremo mai come risposta: “Ci sono le autorizzazioni”.

Con tutto il rispetto delle autorità competenti, chi se ne frega delle autorizzazioni…

In provincia, si sa, ogni volta che si fa un passo si rischia di pestare i piedi a qualcuno, magari involontariamente, magari consapevolmente. La storia del distributore ha fatto emergere subito le fazioni dello scontro (che nessuno vuole, spero) i cui strateghi hanno già sentenziato: “Spostiamo l’attenzione dalla domanda posta al fatto che le autorizzazioni ci sono tutte e non è che ogni volta che si fa qualcosa devono rompere i coglioni questi ambientalisti che non hanno nulla da fare. Noi siamo gente che lavora…”.

Pensare che questa sia una strategia studiata a tavolino, presuppone la capacità di studiare una strategia. Cosa difficile, almeno secondo l’esperienza fatta a Martina Franca, sono pochi coloro capaci di arrivare a tanto. Secondo chi scrive la cosa più probabile è che invece siano stati davvero colti in fallo, involontariamente, e l’atteggiamento è stato quello della difensiva.

Colti in fallo su cosa? La reazione della parte opposta spinge chi scrive a pensare che ci sia davvero qualcosa che non è emersa da subito. La domanda posta al commissario (ad acta, non di polizia, tranquilli…) assume ancora più importanza. Riflettendo ad alta voce, la prima obiezione è: come mai lì e non in via Mottola o in via Massafra? Perchè scegliere un luogo decentrato rispetto al grosso del traffico? Forse è una posizione strategica. Ma per cosa?

Il nuovo tracciato della SS 172?

Ecco. Forse è questa la base della decisione di strappare un pezzo di Valle d’Itria e destinarla a contenitore di petrolio. Da lì passerà la nuova 172 e quel posto diventa strategico. Oltretutto, vedendo i lavori in corso dalle parti del ponte della ferrovia sulla strada vecchia per Alberobello, diventa chiaro che da lì sarà spostato il traffico pesante diretto nella Zona Industriale. Il ponte che stanno costruendo permetterà che da sotto passino i camion.

(Questo spiegherebbe come mai dal Piano Carburanti voluto dal Comune sia stata stralciata solo la parte che va da via Locorotondo a via Ostuni fino al limite di provincia e non fino a via Alberobello).

Sarà questo il possibile disegno? Una nuova strada ad alta capacità che taglia la Valle d’Itria?

Senza giudicare, davvero, questo progetto, non possiamo non porci una domanda: un cambiamento così radicale del territorio, non meriterebbe un consulto con i cittadini? I milioni di euro che si spenderanno forse ci dicono che non è il caso di far passare tutto dal giudizio popolare. Chi sparte ha la parte migliore, dicono da noi.

Tanto ci sono le autorizzazioni.

Ah, dimenticavo, la Sovrintendenza per i Beni e le Attività Culturali non ne sapeva niente. Tanto da sentirsi in dovere di scrivere ai Carabinieri (clicca qui e qui per leggere la lettera)

Guerrilla Radio (turn that shit up)

Il silenzio non rende onore al lavoro e alla vita di Vittorio Arrigoni. Il silenzio l’ha ucciso, complice terribile di dinamiche criminali. Chi sta zitto è vigliacco, o forse, semplicemente, non ha capito. Perchè Vittorio Arrigoni è stato ucciso e forse non è un caso. Perchè adesso chi ci racconterà puntualmente la lotta dei palestinesi contro l’occupazione israeliana, chi conterà le vittime e le chiamerà per nome, ad una ad una, esseri umani strappati alla terra e contati come numeri dell’infinito abaco della morte?

Chi?

Il silenzio ha ucciso Vittorio Arrigoni. Ma anche la nostra incapacità di raccogliere il grido di dolore che da quella terra si alzava ogni giorno, muezzin di sangue che non abbiamo voluto fare nostro.

Vittorio Arrigoni è morto, raccontato come un pacifista mentre lui era la nostra coscienza. Nessuna inchiesta gli renderà giustizia (a proposito, l’Italia non chiederà conto della sua morte?), chi ci ricorderà del dovere morale di pretendere pace e giustizia per la Palestina, soprattutto per la Palestina, per tutte le Palestine del mondo?

Non è arrivato forse il momento di alzare il volume, di chiedere conto del dolore, di pretendere giustizia, di lottare?

Quanto ancora riusciremo ad accettare? Quante lacrime abbiamo ancora da versare?

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Gli immigrati non puzzano uguale

Dopo l’intervista ad Atsuko, mi ha contattato un amico per chiedermi se poteva essere in qualche modo utile nei confronti delle vittime della catastrofe giapponese. Vedere la condizione in cui sono ridotte le città e il rischio di un’esplosione nucleare ha sicuramente toccato le corde solidali di molti di noi. Non avendo disponibilità economiche, questo amico ha messo a disposizione un’abitazione per una famiglia numerosa. Gli ho risposto di non sapere come o cosa fare, o a chi far arrivare la richiesta, ma che mi era molto più semplice metterlo in contatto con qualcuno che lavora con i profughi o i richiedenti asilo africani. Immediatamente questo amico ha ritirato l’offerta, giustificandosi col fatto che le radiazioni nucleari sono ben altra cosa rispetto ai problemi africani.

Vero. Una centrale nucleare è evidentemente più pericolosa di un dittatore impazzito. La prima uccide indiscriminatamente, il secondo sceglie con cura i suoi bersargli.

L’episodio però offre uno spunto di riflessione serio: gli stranieri non sono percepiti tutti alla stessa maniera. Se quest’affermazione può sembrare ovvia, non farebbe male rifletterci su…

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Qui Giappone, tra il rischio nucleare e la normalità quotidiana

Atsuko è una ragazza di Osaka, in Giappone, una città nella zona centro-meridionale del paese, abbastanza lontano dalla zona colpita. Parla bene l’italiano, e abbiamo avuto la fortuna di intervistarla tramite un giro di mail. Le sue risposte risalgono a ieri 16 marzo e tracciano un quadro della situazione più completo rispetto a come siamo stati abituati a vedere in questi giorni. Prima di tutto si sorprende di come trattano la questione i media italiani, che secondo lei esagerano, rispetto ai media locali che comunque, tendono a contenere la situazione. Poi spiega che la sua quotidianità non è stata assolutamente stravolta e risponde anche a qualche domanda sul nucleare, sperando che quello che sta accadendo a Fukushima non influenzi la nostra decisione referendaria.

Di seguito l’intervista completa.

Ci sono aggiornamenti nei commenti

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Il furgone bianco e Yara Gambirasio

Seguendo il rigorosissimo metodo di indagine scientifica e giornalistica della redazione di Quarto Grado, che ha collegato un furgone bianco che passava lungo la strada che collega la palestra alla casa di Yara, ripreso di sguincio da un videocamera messa a sorvegliare un bancomat, sono riuscito ad identificare il vero possibile assassino di J. F. Kennedy.

La prova dell'omicidio di Kennedy

Come potete vedere nella foto, poco prima di essere ucciso a colpi fucile in testa, il Presidente degli USA passa con la sua auto davanti ad un uomo con la camicia azzurra. Un uomo che non guarda nella direzione dell’auto presidenziale, ma dalla parte opposta, come se stesse dando un segnale ad un suo complice, probabilmente un uomo sui quarant’anni, bianco, con i capelli castani. L’uomo con la camicia azzurra compare anche in un’altra foto, che non possiamo mostrarvi perchè non l’abbiamo trovata, ma se c’entra con l’omicidio, perchè l’avrebbe fatto? Non sappiamo, ma siamo contenti di aver fornito agli inquirenti questa nuova pista.

Nel frattempo godetevi il video che inchioda il furgone bianco all’omicidio di Yara Gambirasio.

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Giovanardi non ti fare, fatti la vita


Un gruppo di studenti parte per una gita in montagna, uno di loro si attarda, prende una bustina con presumibilmente delle pasticche di stupefacenti da un tipo che lo saluta alla maniera del vecchio west. Una ragazza, probabilmente la sua ragazza, lo guarda innervosita dal finestrino. Lui sale, ma lei non dice niente. Passano le montagne, invitanti di neve pura, bianca. Lui si addormenta e sogna. Sogna di una donna stupenda, ammiccante, bianca tra il bianco della neve gli si fa incontro. Ammiccante. Gnocca. Non è la sua ragazza. Si avvicina, ammiccante, gnocca, lo guarda e si accinge a baciarlo sul collo quando improvvisamente si trasforma in un mostro vampiro e tenta di mordergli il collo.

Ma è un sogno, tranquilli.

Perchè lui si sveglia, sono arrivati in montagna, è l’ultimo a scendere dall’autobus, si avvicina ad un fuoco acceso e butta le pasticche.

Parte la musica di Nek, compare una scritta giovanile:

Non ti fare, fatti la vita.

La prima volta che l’ho visto ho pensato ad un fake, ad un falso. La storia è quasi inconsistente, il messaggio è grossolano. La droga che sembra una bella donna ma in realtà è un vampiro. Poi contiene evidente elementi di sessismo: perchè una bella donna? E se fosse davvero stata una bella donna e non un vampiro, sarebbe stato un bene? E perchè non interviene la ragazza del “quasi-drogato”? E, per ultimo, non è che in realtà lo spot lancia il messaggio meglio la “neve” che le “paste”?

Dubbi.

Dubbi che riconducono alla percezione legata alla sostanza stupefacente, riconducendola nella categoria del Male Assoluto, dell’Orrore, della Paura. La droga deve fare paura, non dobbiamo avvicinarci, non dobbiamo conoscerla. Non dobbiamo sapere. La droga è tabù, il drogato è un paria che non dobbiamo avvicinare. Mi ricordo quando da piccolino prendevo con le forbici le figurire che brillavano perchè girava la voce che contenessero droga.

Quindi due considerazioni: la prima sul contenuto e l’altra sulla forma.

Contenuto: approccio terroristico, una campagna di comunicazione deve contribuire alla conoscenza del fenomeno, non alla messa al bando. Sarebbe come nascondere la polvere sotto al tappeto. Se a questo si aggiunge che Tremonti ha di fatto azzerato lo stato sociale, tagliando l’80% dei fondi destinati al welfare, diventa chiaro che l’obiettivo è la rimozione, l’esclusione, l’abbandono.  Del sessismo e dei doppi sensi ne abbiamo parlato prima.

Forma: il video è fatto dalla Spark Digital, una nota e brava casa di produzione (tipo “Fascisti su Marte”) scimmiottando un po’ troppo i virali che girano sui social network e su Youtube, come di quella ragazza in chat che si trasforma in orribile mostro. Nelle intenzioni del Dipartimento per le politiche antidroga c’è proprio quella di farlo girare tra le giovani generazioni affinchè possano essere sensibilizzate sull’argomento. Secondo Giovanardi & Co. l’intenzione era proprio usare le “stesse armi dei giovani”.

In sintesi, il video è ridicolo, sembra davvero un falso, ma potrebbe girare (come già sta avvenendo) proprio perchè sembra un falso. Non ti fare, fatti la vita! E adesso canta tu, Nek!

Poi, ad un certo punto, scopri che è tutta un’idea di Giovanardi, e capisci tutto.

A voi il video.

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Libia, una questione di politica interna

Ragionando per assurdo, possiamo dire che chiedere con forza che qualcuno si occupi della situazione in Libia può essere paragonato a chiedere con forza che qualcuno faccia qualcosa contro chi costringe le donne al burqa e abbatte gigantesche statue di Budda. Tipo i talebani. Gheddafi e il suo regime sono tratteggiati a tinte così forti che non lasciano spazi a dubbi: il colonnello libico è il Male Assoluto. 10’000 morti, fosse comuni, stragi, mercenari sanguinari assoldati perchè anche il suo esercito si è ribellato e schierato con il popolo che chiede libertà.

Per essere onesti, bisogna dire che non ci sono documenti ufficiali, non ci sono testimonianze, non ci sono foto, non ci sono filmati di quanto sta accadendo in Libia, se non le dichiarazioni di Gheddaffi che minaccia l’Europa di chiudere il rubinetto del gas e del petrolio e di aprire quello dell’immigrazione. Minacce che contribuiscono a rafforzare l’immagine di Maligno del Colonnello.

Ed è il manicheismo che insospettisce. Al netto della giustezza delle manifestazioni, della solidarietà espressa in tutti i modi ai cittadini libici che si ribellano ad un dittatore, il rischio che si corre è legittimare in buona fede un massiccio intervento militare che non farebbe altro che generare altre tensioni in uno scenario geopolitico molto fragile. Un intervento militare metterebbe l’Occidente (perchè si parla di Onu, naturally, o di un ensemble di stati europei) nelle reali condizioni di controllare due cose:

1) Le riserve di materie prime, come il gas e il petrolio

2) Il flusso dei migranti verso l’Europa

Due motivazioni molto ghiotte: abbiamo mandato soldati a morire per molto meno.

Intervento militare quindi, richiesto da alcuni dell’UE e rilanciato da alcuni benpensanti.

Davvero vogliamo questo? Secondo un’intervista rilasciata a Swissinfo.ch, un esperto di giustizia internazionale, riferisce che davvero non ci sono le condizioni perchè qualcuno possa presentarsi armato sulle coste del Golfo della Sirte, perchè alcuni hanno debiti, altri hanno i militari impegnati in Afganistan, ed altri ancora tutte e due le cose insieme.

Chi dovrebbe intervenire allora? Solo un movimento di opinione potrebbe costringere un intervento in Libia. Un movimento di solidarietà per la lotta contro Gheddafi. Un’opportunità da cogliere al volo, quindi, legittimati proprio dai sempreverdi pacifisti.

Allora non si dovrebbe fare niente? Una soluzione potrebbe essere trattare la cosa per quella che è davvero: un’ondata di rivolta sta scuotendo il nord dell’Africa, un vento di rivoluzione che ha già mandato via Ben Ali dalla Tunisia e Mubarak dall’Egitto. Mentre Gheddafi minaccia di lasciar passare le decine di migliaia di rifugiati allora dimostrarsi pronti ad accoglierli, e se ci taglia il petrolio, poco male, andremo a piedi.

Ma Gheddafi è anche amico di Berlusconi. Ecco perchè la Libia è una questione di politica interna. Di più: la collaborazione con la Libia è uno dei pilastri su cui si è fondata la politica di questo governo: in cambio di 5’000’000’000 di dollari, Gheddafi si impegna a bloccare il flusso di migranti africani. La lotta alla clandestinità l’hanno fatta i libici e non i padani. Da che parte deve mettersi il Governo italiano? Dalla parte dell’UE che propone un intervento armato o dalla parte del Colonnello, che non deve essere disturbato? Una situazione troppo complessa per essere risolta nel tempo di una trasmissione di Santoro.

Un buon presupposto potrebbe essere quello di non mostrarsi terrorizzati a dover accogliere 250’000 rifugiati.

Se non ora quando?

Anche a Martina Franca, in un avvilente silenzio mediatico appendice di quello nazionale, sono scese le donne per manifestare la propria volontà di non essere misurate attraverso i centimetri del seno. Ma cosa vogliono, in parole povere?

La lotta per la questione di genere è una strada lunga e piena di fraintendimenti, doppi sensi, rendite di posizione. In effetti non è semplice capire cosa come e dove vogliono arrivare. Io scrivo da maschio, ovvio, da maschio che non ha capito fino in fondo quale disagio può vivere una donna in un sistema che riconosce nell’immagine un ruolo fondamentale nel giudizio dell’individuo.

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Settecento di questi giorni

“Eppur si muove” oppure “non chiedere cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Vengono in mente tante citazioni durante l’incontro organizzato da Carlo Centrone, un tam tam sui social network che ha riempito la sala di Cristo Re. Tante persone, tante realtà, tante appartenenze. Anche politiche, nonostante sia chiaro dagli intenti dell’organizzatore e dai commenti in sala che proprio per le mancanze della politica ci si è trovati in una serata fredda di febbraio per organizzare “il compleanno di Martina Franca, il mio compleanno”, come ha detto Marangi della Ghironda.

Le parole di Centrone rimbalzano tra le file di sedie occupate, facce interessate, attente. Il progetto parte da un semplice assunto: l’Amministrazione Comunale pare non voglia assolutamente fare nulla per festeggiare adeguatamente il settecentenario della città. A questo punto, stanchi della solita ignavia dei politicanti locali, perchè non mettersi tutti insieme e organizzare la festa fatta dai martinesi per Martina Franca? Cittadini, associazioni, professionisti, imprenditori: tutti insieme in un’associazione che muore per statuto allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2011. Un’ATI, in pratica.

Guardandosi intorno, è evidente che c’è una cosa che accomuna tutti, dagli scout all’editore, dall’architetto al fotografo, all’operaio all’ex candidato consigliere. L’esclusione. Un’assemblea fondata sull’esclusione. Cosa hanno in comune tutti quanti? Il fatto di essere stati in qualche modo esclusi dagli ultimi 10 anni di vita politica/economica/sociale martinese. Esclusi dalla cricca che ha spartito potere e lotti di terreno, soldi per le manifestazioni e concessioni edilizie. Esclusi. Certo, non tutti sono ugualmente esclusi. Non è possibile paragonare un’associazione come la Ghironda a Terra Terra, sia per attività che per fatturato, ma entrambe, in qualche modo, sono state escluse.

Quindi eccoci qua, a rispondere “presente” alla chiamata di un cittadino tra i tanti (manco tanto) che ha preso la tastiera e ha creato l’evento su Facebook, ha coinvolto gli amici, ha chiesto di esserci. Una riunione che per il sottoscritto è costata due ore e mezzo di treno e una levataccia domani mattina per tornare a lavoro. Ma bisognava esserci per dire, insieme agli altri: “Eccomi, anche io sono un escluso”.

La politica è lontana, deve essere, a sua volta, esclusa da questo movimento (perchè è un movimento). Eppure l’assemblea di stasera è uno dei gesti più politicamente significativi che si sono fatti in città negli ultimi anni. Molti vogliono tenere fuori consiglieri e assessori, come in una sorta di vendetta civile, di boicottaggio democratico. Il popolo degli esclusi decreta che gli esclusori saranno esclusi. Eppure siamo sicuri che in sala c’è qualcuno che quelli (gli esclusori) li ha votati, magari ha anche fatto campagna elettorale.

Ma non importa. Non stasera.