Caro Babbo Natale…

La letterina a Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

mi chiamo Massimiliano e sono un giovane abitante di Martina Franca. Volevo dirti che quest’anno non sono sempre stato buono, qualche volta mi sono incazzato, e qualche volta mi sono comportato male, ma ho sempre cercato di essere bravo e buono. Quest’anno, caro Babbo Natale, ho pagato tutte le tasse, alcune aumentate del 50 percento, come quella sulla spazzatura, ma non perché ho ingrandito la mia casa, ma perché il Comune si è beccato una bella multa e dobbiamo pagarla tutti. I maligni dicono che è colpa degli amministratori che, nonostante le sentenze dei giudici e le leggi della Regione, non fanno una nuova gara d’appalto per lo smaltimento. Io credo che lo facciano perché hanno a cuore le sorti dei dipendenti della Tradeco.

Caro Babbo Natale, quest’anno qualche volta mi sono lasciato andare a brevi turpiloqui. Quando ero nel traffico soprattutto, perché mi scocciavo di metterci mezz’ora da Cristo Re all’Ospedale. Immagino che scorazzando tra le stelle con le tue renne non hai problemi di doppie file che intralciano il passaggio, di cerebrolesi che ti guardano sorridendo sorseggiando caffè mentre la loro macchina blocca la tua, di soste espressioniste al centro strada, di signore troppo impellicciate per capire che lo spazio vuoto tra due auto è un parcheggio dove poter lasciare il loro ingombrante inutile Suv. Mi sto innervosendo, ma mentre ti scrivo, caro Babbo Natale, rivivo le scene che accadono quotidiane.

È stato un anno allegro, quasi, tranne che per due miei amici che si sono sposati e non riescono a trovar casa, che ci vorrebbero un po’ di mutui subprime anche qui da noi. Lo sai che una casa arriva a costare 3600 euro al metro? Sono sicuro che da voi in Lapponia non è così. Questo fatto mi ha intristito e se mi intristisco mi arrabbio un po’, e me la prendo con gli amministratori che, poveretti, sono troppo impegnati per pensare al piano regolatore.

È stato un anno molto intenso. Al giornale ci sono stati nuovi acquisti e tutti abbiamo un po’ acquisito esperienza. Ma la vita del cronista, sia esso di cronaca o di sport, di inchiesta o di politica, non è mai semplice e spesso, a causa dell’abitudine a leggere i fidi scribi, sembra che il lavoro fatto non valga nulla. Ma noi non ci arrendiamo e anzi ti chiedo che questo Natale mi porti un po’ di pazienza e di cortesia nei confronti di chi è re in paese ma già all’altezza di San Paolo conta come il due di briscola.

Vorrei la capacità di raccontare a tutti, senza la paura di non essere capito.

Sotto l’albero la mattina del 25 spero di trovare splendente lo spirito cristiano dell’accoglienza, che gli abiti talari non indichino solo arringhe vigorose ai fedeli intruppati ma scarpe sporche di fango e mani che abbiano toccato la povertà.

Vorrei aprire un pacco e trovare il modo perché la gente non veda nei ragazzi dell’Hotel dell’Erba dei concorrenti nella miseria ma dei fratelli vittime anche loro degli stessi meccanismi che divide il mondo in sfruttati e sfruttatori.

Anche se non sono stato un esempio di bontà, ti chiedo, Babbo Natale, di portarmi un paio di forbici magiche per tagliare i fili tra i vertici delle piramidi di potere che impoveriscono le nostre terre e le nostre menti e le persone normali, laboriose, oneste, costrette ogni giorno ad inchinarsi perché ci fanno credere che i nostri diritti non sono nient’altro che privilegi.

Portami una gara d’appalto per i rifiuti, affinchè anche a Martina si possa fare un po’ di raccolta differenziata. Regalami un’idea per spiegare agli imprenditori della zona industriale che non possono usare i cassonetti normali per gettare i rifiuti delle loro imprese, perché altrimenti a pagare siamo noi cittadini. Regalami un po’ di buon senso da mettere sotto il tergicristallo delle macchine parcheggiate in doppia fila. Regalami un vigile personale che multi chi non sa guidare.

Babbo Natale, se c’è spazio nel tuo sacco ti chiedo un chilo di saggezza, da donare ai nostri amministratori, affinchè capiscano che governare non significa emettere ordinanze contro chi sputa o emette flatulenze, ma timonare una nave che non deve affondare.

Vorrei un po’ d’ordine, per favore, nel nostro Ufficio Tecnico, perché mi dispiace che spesso si perdano le carte.

Vorrei un po’ di sicurezza, se è possibile, vorrei poter sognare una prospettiva e un futuro e non ringraziare di essere arrivato alla fine del mese.

Per ultimo, caro Babbo Natale, ti chiedo di trovarmi quella scatola di giocattoli che quand’ero bambino mio padre mi comprò dal negozio sotto casa, quella dove c’erano le casette in plastica colorate, da assemblare. Quella scatola che stava in vetrina in quel negozio di giocattoli che ora non c’è più.

Problema casa: una soluzione sarebbe cercare a Crispiano

Una (non troppo) fantasiosa ricostruzione del perché a Martina è impossibile trovar casa.

L’otto dicembre scorso il noto blog Liberamartina, riportava per primo la storia del signor Cosimo P. disoccupato e sfrattato, costretto a dormire nella villa comunale. Senza lavoro e senza soldi quindi, impossibilitato a pagare l’affitto, per alcune notti si è adattato a dormire su una panchina della villa.

Nonostante questa possa sembrare l’ennesima storia di povertà, l’ennesimo caso umano su cui versare un po’ di lacrime, una situazione del genere ci offre lo spunto per una riflessione sul tema case.

Secondo le statistiche dell’Istat, i nuclei famigliari sono circa diciottomila e il totale delle abitazioni risulta quasi il doppio, circa trentamila. Il dato quindi ci dice che le case sono più delle famiglie, anzi che c’è una casa ogni due persone. L’offerta quindi supera la domanda. Secondo le leggi di mercato in una situazione del genere i prezzi dovrebbero calare, permettendo a tutti di acquistare. Invece non è così, i prezzi al metro quadro a Martina sono tra i più alti in provincia e sono un reale ostacolo all’acquisto. Questo perché gli imprenditori edili sembra abbiano fatto cartello e, in barba alla libera concorrenza, fanno il bello e il cattivo tempo. A questo si aggiunge un piano regolatore che ha esaurito da un bel pezzo le sue funzioni, avendo la veneranda età di venticinque anni. Le zone edificabili sono state edificate e si costruisce solo in deroga al piano stesso. Un nuovo Piano Urbanistico permetterebbe sia di costruire, sia di abbassare i prezzi, indicando un livello massimo di canoni d’affitto e un tetto al rapporto prezzo/metratura. Da questo punto di vista, il Consiglio Comunale, non solo quello tutt’ora in carica, ha fatto sempre orecchie da mercante, facendo dubitare i più maligni di commistioni tra la classe politica dirigente e i (pochi) imprenditori che riescono ancora ad avere licenze edilizie.

Sebbene sia difficile vendere (in realtà è difficile acquistare), il mattone a Martina è un’attività redditizia, altrimenti non si spiegherebbero i vari escamotage per scavare fondamenta e far crescere condomini. L’episodio dell’articolo 51 è emblematico: durante la crisi politica a ridosso del 2000, il Comune fu retto dal commissario prefettizio Sessa che, andando ben oltre i suoi compiti, autorizzò una maxivariante al piano regolatore che prevedeva la costruzione di ben 430 appartamenti sparsi a macchia di leopardo su tutto il territorio comunale, in particolare dalle parti del Pergolo e di via Massafra. Ma la procura intervenne a bloccare tutti i procedimenti: non solo non era nei compiti del commissario approvare una cosa del genere, ma l’elezione del sindaco ci sarebbe stata di lì a pochissimi giorni, se c’era davvero necessità, sarebbe bastato aspettare. Inoltre anche l’uso dell’art. 51 della legge sull’edilizia è stato improprio: la legge prevede che, in caso di necessità, ci può essere una deroga al piano regolatore per interventi di carattere pubblico, mentre l’iniziativa di Sessa e compari era indirizzata verso i privati. L’affare colossale è stato bloccato, e la procura ha iniziato un’inchiesta coinvolgendo otto persone tra imprenditori e funzionari comunali, compreso Sessa. Una storia che è addirittura approdata in Parlamento.

Questo accade tra il 2002 e il 2003.

Nel frattempo nessuno si è mosso per quanto riguarda il Pug, a parte qualche dichiarazione estemporanea. Il problema dell’accesso alla casa però rimane alto, tanto che lo Iacp, l’Istituto per le case popolari, presenta un progetto per la costruzione di una ventina di appartamenti finanziati dalla Regione. Quasi due milioni di euro per dare una boccata di ossigeno alle tante famiglie che non possono permettersi le cifre esose dei proprietari di casa. Tutto però si risolve in una bolla si sapone. Il progetto, presentato al comune, si perde tra le varie carte dell’Ufficio Tecnico, nonostante le promesse che il sindaco Palazzo ha fatto ai funzionari dello Iacp. Il tempo passa e la Regione decide di intervenire, dirottando i fondi per le nuove case popolari verso Manduria.

Questa disattenzione dei funzionari comunali e dei politici amministratori potrebbe costare cara alla città, perché nonostante le lunghe liste di famiglie in attesa di alloggio, l’occasione propizia si è persa. Sennonché spunta fuori dal cilindro la cosiddetta Legge 12, varata dalla Regione la scorsa estate, che prevede la possibilità di andare in deroga al piano regolatore e rendere edilizie alcune aree, in particolare le zone E, le aree dove sarebbero previste solo villette, per intenderci. La legge 12 si riferisce ai comuni con elevata tensione abitativa e prevede che i proprietari delle aree suddette possano costruire in deroga al piano regolatore, sia rispetto alle dimensioni sia rispetto all’indice di abitabilità.

piano-regolatore-via-massafra-zona E

L’unico obbligo è che siano rispettate le norme e i massimi d’affitto previsti dalla legge, trattandosi di edilizia economica convenzionata. Un privato, cioè, fa le veci del pubblico e ne rispetta i termini. Solo che invece di pagare l’affitto allo Stato, lo si paga al costruttore. La ghiottoneria della legge però sta nell’obbligare chi costruisce a donare il dieci per cento degli appartamenti al Comune, come se fosse una sorte di rimborso spese. Il Comune quindi avrebbe da assegnare alcuni alloggi alle famiglie che aspettano da tempo.

Se fossimo in una realtà degradata, tipo Palermo degli anni ottanta o novanta, e non in un paese civilissimo come Martina Franca, si potrebbe pensare che la “dimenticanza” del progetto dello Iacp sia stata voluta perché sono ancora in ballo i 430 appartamenti dell’articolo 51. Questo fatto potrebbe addirittura arrivare a bloccare la stesura di un nuovo piano regolatore, perché chi avrebbe dovuto costruire perde un investimento milionario, dato che tutti avrebbero la possibilità di edificare. Nel frattempo che si risolva l’inchiesta, piove dal cielo la legge 12, voluta dalla Barbanente per risolvere problemi reali, ma che a Martina (se non fosse la civilissima di cui siamo certi) risolverebbe i problemi di alcuni costruttori. Per verificarlo basta andare dalle parti di via Massafra e verificare se i terreni sono in vendita o sono già stati venduti e a che prezzo. Oltretutto, se non fossimo nella civilissima Martina, si potrebbe arrivare a pensare che gli appartamenti non solo sono un investimento sicuro ma possono anche servire in caso di elezioni come scambio o favore. Se su cento appartamenti, dieci sono del Comune, le famiglie a cui toccherà la fortuna di usufruirne saranno eternamente grati all’assessore che le ha scelte.

Questa lettura naturalmente va ben oltre i fatti, sono supposizioni fantasiose. Se il nuovo piano regolatore sta assumendo ormai le stesse caratteristiche del Messia per il popolo ebraico, che campa sperando di vederlo, è per necessità contingenti, importanti. Siamo sicuri che un Consiglio Comunale con un’alta percentuale di geometri e ingegneri e fratelli di geometri e cugini di ingegneri non avrebbe difficoltà a stilarlo. Se non lo fa è perché ci sono motivi gravissimi che noi cittadini non possiamo nemmeno immaginare. Per questo, caro signor Cosimo P. che cerchi casa, ti consigliamo di considerare Crispiano come valida alternativa.

Pecore alla diossina: ecco il dolore di chi ha perso tutto

Pubblichiamo la lettera che la famiglia Fornaro, che gestisce la masseria maggiormente colpita dai danni dell’allevamento, ha inviato a Peacelink

—- Lettera aperta delle famiglia Fornaro —-

Un cielo di piombo si chiude come un sipario su Taranto. La strage degli
innocenti è compiuta. Abbiamo assistito all’ultimo atto di una tragedia.
Il 10 dicembre sono venuti a prelevare le pecore e le capre in tutte le
masserie degli allevamenti coinvolti, giungendo così all’epilogo del
lavoro di una vita. Nei nostri ovili ora rimbomba un silenzio assordante,
intriso di dolore, quello nostro e dei nostri animali che generosi fino
all’ultimo istante sono saliti sui camion della morte, pronti a
sacrificare la loro vita per salvare la nostra.

Sinceramente immaginavamo tutti una conclusione diversa. Una giornata
pesante come le nuvole che hanno accompagnato le operazioni… l’assenza
della città e la presenza della forza pubblica hanno mortificato ciò che
restava di una speranza.

La giornata è passata e questa mattina alle 4 ci siamo avviati verso il
macello per accompagnare i nostri animali e continuare a vivere la loro
tragedia che è anche la nostra!

Sì, è anche la nostra, non solo come famiglia colpita, in quanto questa
tragedia coinvolge non solo tutti i cittadini di Taranto, ma anche tutti
coloro che hanno guardato con sensibilità alla nostra sofferenza. Non
rendiamo inutile questo sacrificio! A noi oggi piace pensare che questi
animali possano diventare un simbolo, non dell’ennesima ingiustizia ma del
risveglio della coscienza collettiva troppo a lungo assopita, e in questo
senso continueremo ad adoperarci.

A livello personale non ci arrendiamo, siamo abituati a non arrenderci
proprio come la nostra città, e siamo disposti a rispettare le leggi, a
pagare in prima persona come abbiamo fatto fin’ora. E adesso?

Da generazioni facciamo questo lavoro, vorremmo avere di nuovo il nostro
gregge, ci hanno detto che nessuno ce lo impedisce,  ma fra un anno o due
se non si bonificheranno i terreni e se non si controllerà l’origine della
diossina, questa sarà trovata ancora una volta nel corpo dei nostri
animali. Ancora ci hanno detto che potremmo nutrirli con i mangimi già
pronti come se questi fossero veramente esenti da rischi (i maiali
irlandesi contaminati dalla diossina non erano forse nutriti secondo
queste modalità?).

Chiediamo dunque delle direttive chiare in attesa di ricevere quanto prima
l’obolo per noi stanziato appena sufficiente e comunque necessario “come
il pane” per tirare avanti. Vogliamo che chi di dovere si assuma
politicamente le proprie responsabilità come noi abbiamo fatto con le
nostre . Chiediamo di mettere per iscritto cosa possiamo o non possiamo
fare, considerando che ormai la nostra fiducia è completamente rivolta
alla magistratura, ma che non siamo più in grado di attendere i tempi
biblici che suo malgrado la giustizia richiede per fare il proprio corso.

Famiglia Fornaro

Allevamento Carmine

Conversazione su Martina Franca con Mario Desiati: il dialetto, la provincia, le convenzioni e i film porno al Bellini

Intervista esclusiva con Mario Desiati (pubblicata su Extramagazine il 12/12/2008)

Si dice che non si ha una visione pertinente delle cose se non si è ad una distanza giusta. Non bisogna essere né troppo vicini né troppo lontani. È una regola che vale per qualsiasi cosa: la giusta distanza. Se si dovesse parlare di un luogo, una città, una realtà, l’opinione di un suo abitante non è oggettiva, perché è troppo vicino, com’è troppo lontano lo sguardo di un estraneo. La giusta distanza sarebbe un suo abitante che non abita più. Mario Desiati incarna perfettamente la giusta distanza per parlare un po’ di Martina Franca, che è anche la protagonista del suo ultimo libro.

La prima cosa che si nota scorrendo le pagine de “Il paese delle spose infelici” è il massiccio uso del dialetto.

desiati Il dialetto del romanzo è un dialetto reinventato, molto più addolcito rispetto a quello della realtà, un dialetto simile a quello che parlavano i ragazzi martinesi degli anni Novanta. Ho aggiunto qualche vocale per renderlo più comprensibile a lettori e traduttori. Ma è così, spietato, duro, con un suo lato oscuro.

Cosa intendi per “lato oscuro”?

È come se questo dialetto, con le sue consonanti talmente chiuse, rifletta una parte del carattere chiuso dei martinesi.

Un carattere che è entrato nelle narrazioni popolari facendo paragonare i martinesi alla pietra con cui sono costruite le loro case. È possibile secondo te che una città possa avere un suo animo, tanto da influenzare le persone che vi abitano? Oppure, mettiamola in un modo più misterico, è possibile che ci sia una “maledizione” che grava su Martina e i martinesi?

È un’ipotesi suggestiva, ma Martina ha gli artigli come la Praga di Kafka, ti tiene stretto, se vai via ti graffia: quando vai via ti restano i segni addosso, nella testa, nel cuore e sul corpo. Sono ferite che fanno male soprattutto quando si torna, quando ci si rende conto dei cambiamenti, di cui chi ci sta dentro non ne percepisce la profondità.

E probabilmente non lo percepisce affatto. I protagonisti del libro, Veleno e Zazà (i protagonisti del romanzo, ndr ), cercano un riscatto. Un riscatto che è la felicità minuta, che consiste nel giocare in un campo d’erba, nell’odore di prato come quello del Tursi o dello Jacovone che verrà sentito una sola volta e ricordato per sempre.

Sembrerebbe poco…

Loro non sono ancora corrotti dal mondo circostante che gli obbliga a cercare altri tipi di felicità. Veleno e Zazà sognano nel calcio uno sfogo nel male di provincia, dove la vita sembra obbligarti a un certo percorso e simbolicamente uno di questi traguardi è il matrimonio. Percepire la diversità dal contesto senza che questa sia tollerata è allora un momento di squilibrio e infelicità. Il sudore e la rabbia che si mettono in campo prima e nel tifo dopo, è l’apparente via d’uscita del duo.

Una provincia che ti obbliga a seguire un determinato percorso: o accetti le convenzioni o quella è la porta.

C’è provincia e provincia: c’è anche una provincia a Roma e Milano che sono le uniche metropoli italiane, un luogo dove ci si conosce tutti e si seguono le stesse convenzioni d’un paese.

Se scendiamo invece nel caso che ci riguarda, è vero le convenzioni esistono, ma tutto sta a esserne coscienti e proprio il villaggio globale a volte bombarda con il consumismo che corrompe i valori sani della provincia, ossia lentezza, sguardo, solidarietà.

Nel libro traspare una sorta di “horror vacui”, che è un elemento comune ad alcuni scrittori meridionali, tipo Bodini. Una paura del vuoto che distorce la percezione, quasi. A cosa è dovuta secondo te?

Credo che nella periferia, nella provincia, si avverta di più questo horror vacui che forse è semplicemente un dare senso e corpo alla solitudine. Non è un orrore esistenziale la solitudine della provincia secondo me, ma una condizione, la soluzione è autenticità, vivere essendo se stessi, senza rinunce alla propria personalità.

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Passiamo ad un argomento più leggero. Parliamo del Bellini: un luogo storico della città, come anche tu sostieni nel tuo libro, che è stato abbattuto per fare appartamenti. Le voci di dissenso sono state

pochissime e nulli i risultati.

Il cinema Bellini, pur non essendo un vero monumento, è stato un feticcio della mia generazione. Il cinema proibito, metafora di una zona rossa, luogo impenetrabile. Gli anni delle locandine oscene con la gente che aspettava davanti al Bar Ducale il momento dell’arrivo del nuovo film, restano uno dei momenti più comici della presunta Martina bene degli anni Ottanta. Tutti si ritrovavano davanti al Bellini per sbaglio come quando tutti guardavano il film osè su AT6 per sbaglio, salvo poi essere dettagliati nella descrizione delle scene. Insomma essere bambini a Martina è stato molto bello e divertente anche per quel fantastico “equivoco” che era un cinema porno nel centro pulsante della città.

Misure anti-crisi: se i provvedimenti non saranno strutturali, la crisi sarà irreversibile

La situazione delle aziende tessili a Martina Franca sta assumendo i caratteri di una tragedia. Il comparto che, per decenni, è stato quello trainante di tutta l’economia martinese, sta subendo attacchi tanto forti che non è improbabile che nel giro di poco tempo possa del tutto sparire. Dal 2003 in poi i lavoratori sono diminuiti del 50 percento e da 350 aziende ne sono rimaste meno della metà. Solo quest’anno i numeri sono impressionanti: 277 operai hanno perso il lavoro, 240 sono in cassa integrazione straordinaria per crisi che, se non dovessero attuarsi provvedimenti che rilancino l’economia del settore, entro il 2009 si aggiungeranno ai primi. A questi dati bisogna aggiungere che il numero di settimane di cassa integrazione ordinaria quest’anno è cresciuto esponenzialmente. E questo è solo un dato parziale, perchè riguarda solo i lavoratori che si rivolgono alla Filtea.

Il periodo nero che sta investendo questo settore è la somma di due crisi diverse. La prima viene da lontano, da quando la maggior parte delle aziende hanno preferito delocalizzare (in particolare in Romania e in Cina) la produzione, alla ricerca di un sempre minore costo del lavoro. La seconda è la crisi finanziaria attuale, che chiude i rubinetti del credito alle imprese, bloccando i questo modo i pagamenti ai lavoratori e non solo, dato che l’accesso al credito rappresenta una delle necessità principali per lo sviluppo di un’impresa, anche in termini di investimento.

La differenza tra la crisi presente e quelle passate, è che questa ha assunto il carattere di definitività: se una volta i lavoratori potevano sperare di essere reimmessi nel mercato del lavoro, perchè le crisi sono cicliche, adesso, una volta licenziati, sarà impossibile essere riassunti.

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I provvedimenti anti-crisi messi in atto dal Governo di cui si sta discutendo sono insufficienti. Non basta mettere un tampone a quello che sta accadendo ora, ma serve anche mettere in campo strategie e risorse per permettere a questo settore di risollevarsi passato questo brutto momento. È necessario che gli ammortizzatori sociali siano applicati anche ai casi non previsti dalla legge, come le ditte con meno di 15 dipendenti e tutti coloro che hanno un contratto temporaneo. Nella crisi globale è infatti necessario tutelare tutte le competenze, che non sono solo espresse dall’occupazione a tempo indeterminato, in modo da non destrutturare le imprese e per reagire alla crisi dei mercati.

È necessario sottolineare anche che c’è chi potrebbe cavalcare queste gravi situazioni, simulando operazioni di cessata attività, smembrando le società per poi affidarle magari a prestanome. Ciò significa che l’Inps paga i debiti contratti dall’azienda verso i lavoratori e le agevolazioni previste per le nuove imprese. Questo è un modo per ottenere scorrettamente vantaggi competitivi a discapito delle aziende che decidono di operare nella legalità.

Giuseppe Massafra (segretario generale Filtea Cgil Taranto)

a cura di Massimiliano Martucci

MISERIE ALL’OMBRA DEL BAROCCO

DOSSIER POVERTÀ A MARTINA FRANCA 1: i numeri della crisi

Abbiamo cercato di ricostruire il problema povertà a Martina, partendo dai dati dell’Istat pubblicati all’inizio del mese.

Chi sono e quanti sono i poveri a Martina

In un periodo in cui si parla ripetutamente di crisi, crolli e povertà, ad essere inflazionati non sono solo i bilanci pubblici di tutto il globo, ma anche le parole per descrivere la situazione. Crisi è una parola che viene usata spesso in tutte le salse possibili, tanto da perdere quasi qualsiasi collegamento con la realtà che dovrebbe descrivere e non avere più quel valore ammonitorio che dovrebbe esprimere.

Abbiamo provato a descrivere quello che significa crisi analizzando la situazione di Martina Franca.

Il dato da cui partire è la rilevazione fatta dall’Istat all’inizio di novembre che riferisce di un’Italia in cui i poveri sono più del dodici per cento della popolazione. Relativamente poveri, dato il calcolo si basa su quanto una famiglia spende in un mese: se è composta da due persone e spende meno di 986 euro, allora è una famiglia in povertà relativa, perché, secondo la statistica, la spesa è indicativa del reddito.

La situazione del meridione è peggiore statisticamente rispetto al quadro nazionale. Secondo i dati dell’Istat, la percentuale di poveri è del 22 per cento di media, con picchi in Basilicata e in Sicilia.

Da dove viene la povertà: l’esempio del comparto tessile

Ci sono due tipi fondamentali di reddito: quello diretto e quello indiretto. Il primo è dato dallo stipendio mensile, che fa entrare in famiglia liquidità, e poi c’è il reddito indiretto che è dato dai servizi che lo Stato garantisce alle famiglie e per cui si pagano le tasse. Sono la scuola e la sanità per esempio. L’esistenza di una persona è garantita dall’interazione di questi due tipi di reddito.

Il reddito diretto è dato dal lavoro e il primo senza il secondo è impossibile. È notorio che il tasso di disoccupazione al sud sia più elevato e più elevati sono i numeri riguardo il precariato e il lavoro cosidetto grigio (quello per cui il salario percepito non corrisponde a quello segnato nella busta paga). Secondo le statistiche il tasso di disoccupazione in provincia di Taranto nel 2007 è del 10 per cento, con un percentuale doppia delle donne rispetto agli uomini (questi sono sull’8% mentre le donne si attestano intorno al 16%). Secondo il Centro per l’Impiego di Taranto, a su sedicimila persone iscritte all’Ufficio impiego di Martina, il 33 per cento di esse è disoccupato. Ma non è una percentuale esaustiva, dato che non tutte le persone si rivolgono a questo servizio se sono in cerca di occupazione.

cammelli_092 Per capire meglio la questione possiamo prendere ad esempio un settore specifico dell’economia martinese: il tessile. Per anni questo comparto è stato considerato quello trainante di tutta l’economia martinese, ma ultimamente sta attraversando una crisi molto pesante, anzi due, considerando che la difficoltà di questo reparto si sta incrociando alla crisi strutturale dell’economia mondiale. In parole povere, negli ultimi tempi un settore che stava perdendo commesse a causa dello spostamento della produzione verso la Cina o i posti dove il lavoro costa meno, ma sopravviveva grazie alle commesse che arrivavano dalle ditte più grosse. Per lavorare, le confezioni chiedevano anticipi alle banche per poter pagare gli stipendi che poi rimborsavano una volta ottenuto il pagamento. Adesso le banche hanno chiuso i rubinetti e i lavoratori sono in mezzo alla strada. Secondo Giuseppe Massafra, della Filtea CGIL, non è ancora possibile stabilire l’entità di quello che accadrà nel futuro, i numeri sono destinati sicuramente a salire (è emblematico che, mentre facevamo l’intervista, abbia avuto una telefonata che gli annunciava il licenziamento di altri trentacinque lavoratori). È necessario, secondo lui, che le autorità prendano atto della tragedia e studino dei provvedimenti adeguati perché la cassa integrazione straordinaria dura solo un anno. E poi c’è la questione del Distretto regionale della moda, la cui sede è Martina. La cosa è diventata ufficiale da poco, e sarebbe paradossale che nel momento in cui viene riconosciuto il ruolo fondamentale delle manifatture martinesi, queste chiudono.

I numeri di Martina Franca

I servizi sociali di Martina offrono alle famiglie particolarmente indigenti, un sussidio minimo economico, una somma di denaro che permette loro di provvedere alle necessità primarie come la spesa o il pagamento delle bollette. Da 2005 ad oggi sono state fatte 674 domande, ma nell’ultimo anno sono aumentate notevolmente. A fronte delle 146 domande presentate l’anno scorso, quest’anno, fino a novembre, ci sono state 202 richieste.

Il sussidio rappresenta l’ultima spiaggia di chi è in difficoltà. Secondo l’assistente sociale Rapisardi che si occupa di questi servizi, la somma di denaro erogata dal comune una tantum è utile ma non è fondamentale nella gestione del problema, perché non è una soluzione: «È assistenzialismo – ci dice – ed è come dare un pesce all’affamato invece di insegnargli a pescare. I soldi messi a bilancio dall’amministrazione sono abbastanza, si dovrebbe puntare verso programmi che incidano in maniera più strutturale». E quando le chiediamo chi sono i poveri di Martina, ci risponde: «Non è possibile fare un quadro preciso della situazione, ma negli ultimi anni ho visto aumentare notevolmente le persone sole, uomini o donne di mezza età, che non hanno nessun tipo di reddito. Molto spesso la loro sopravvivenza si basava sulla pensione dei genitori e, venuti a mancare questi, non sanno più come andare avanti».

Una ulteriore misura per comprendere il fenomeno “povertà” a Martina, potrebbe essere quello del contributo integrativo del canone d’affitto. Sono soldi che la Regione affida ai comuni per aiutare le persone a fronteggiare le spese per la casa. Per accedere non bisogna superare il reddito di quattordici mila euro annui. L’ultimo dato disponibile è quello del 2007, in cui un totale di 503 famiglie hanno avuto accesso al contributo.

Quanto siamo poveri

Questi numeri possono raccontare la realtà fino ad un certo punto, dato che ad essi sarebbe necessario aggiungere tutto quello che è sommerso, tutti coloro che fanno la fila nelle sacrestie per avere un conforto non necessariamente spirituale. La Caritas di San Francesco prende in carico una media di venti casi all’anno, a cui fornisce pacchi viveri o piccole somme di denaro. Ma non è la norma a Martina: alcuni sacerdoti non sembrano essere molto sensibili nell’accoglienza dei poveri.

Un percezione migliore del fenomeno si ha girando per il mercato, oppure dando un’occhiata alle vie dello shopping cittadino e alla loro desolazione. La spirale è chiara: per garantirsi un maggior profitto si punta o sul precariato o sulla delocalizzazione dell’impresa. Si abbassa in questo modo il costo del lavoro ma contemporaneamente si inizia a licenziare o a pagare salari più bassi. Questo crea sacche di povertà che non potendo più garantire un numero costante di consumi provoca una crisi. I numeri martinesi sono preoccupanti, ma non sono ancora diventati allarmanti. Non dobbiamo però rattristarci: l’ottimismo è il profumo della crisi…

Non è un cassonetto ma un avvertimento…

Che il problema dei rifiuti sia presente anche a Martina era una cosa nota, ma che non riuscissimo nemmeno a permetterci dei cassonetti nuovi, è una novità. Basta andare dalle parti del Carmine e scendere dalla parti del tabaccaio che c’è di fronte alle scuole, e troviamo quel bel cassonetto che sta in foto.

cassonetto-scanzano

I dubbi che ci vengono sono due: o la Tradeco che da anni gestisce il traff… pardon, lo smaltimento dei rifiuti a Martina abbia comprato tutto il pacchetto da Scanzano rifiuti nucleari+cassonetti oppure lo smaltimento dei rifiuti per il quartiere Carmine è fatto dalla stessa azienda che serve il comune lucano. E sì, perchè Scanzano è famoso per le battaglie della sua popolazione contro l’istallazione di un cimitero di scorie nucleari, giacenti dalla chiusura delle centrali atomiche. Chi non ricorda il blocco delle strade fatto con i trattori. Bene, ora i loro cassonetti vecchi ce li abbiamo noi. Speriamo che questo cassonetto non sia un monito che ci indica che arriveranno anche le scorie che gli scanzanesi hanno scansato.

Paura eh???

LA LEGGE CHE METTE LO STUDENTE AL CENTRO. E LASCIA GLI ALTRI A CASA

Con 162 voti favorevoli e 134 contrari, il famigerato decreto Gelmini-Tremonti ha acquisito dignità di legge. Questo nonostante in tutta Italia le piazze fossero piene di studenti, di professori e di genitori che manifestavano il loro parere contrario. La legge Gelmini, come abbiamo avuto più occasione di ripetere, più che rispondere a bisogni educativi e didattici, risolve problemi legati ai conti pubblici e alla crisi mondiale dell’economia liberista.

La protesta contro i taglia alla scuola è diffusa in tutta l’Italia, in ogni città e paese, sono sorti dal nulla comitati per la tutela della pubblica istruzione. A Martina è nato il comitato “Salviamo la scuola di tutti” di cui fanno parte tutti i cittadini e le associazioni che hanno a che fare con la scuola. Domenica 26 ottobre hanno organizzato una bellissima manifestazione in piazza XX Settembre per raccogliere firme contro l’approvazione del decreto. Fino ad adesso ne hanno raccolte più di cinquecento e non si fermeranno, nonostante il decreto sia già stato approvato. Le preoccupazioni che muovono queste persone a scendere in piazza sono così profonde che anche la certezza di combattere contro una legge firmata del governo non le spaventa. Anzi. Un’attivista del comitato, membro anche di associazione che riunisce le famiglie di persone affette da handicap, vede nel futuro sempre più difficoltà:”Se tagliano gli insegnanti di sostegno, per i nostri figli sarà impossibile frequentare. Già adesso non è facile. Se consideriamo poi che hanno deciso di fare delle classi solo per bambini immigrati, cosa può impedirci di pensare che non sarà così anche per le persone che sono affette da handicap?” La linea dell’attuale governo sembra chiara da questo punto di vista: supportare solo le attività che promuovono la normalità, ossia i valori convenzionali, cioè fede (cattolica) identità (italiana) classe (ricca).

Per il corteo di giovedì sono partiti da Taranto più di quindici pullman pieni. Undici solo della CGIL ci dice Anna Santoro, responsabile per la provincia jonica del comparto scuola del sindacato di Epifani, sessanta in tutta la Puglia: “La riforma tanto proclamata non esiste. E soprattutto le cifre che snocciola Berlusconi ogni volta non sono che una finzione. Dipende sempre dalle interpretazioni. È vero per esempio che non ci saranno licenziamenti, ma questo non significa creare posti di lavoro, significa che dall’anno prossimo i precari, sia docenti che personale non docente, saranno sostituiti da chi ha il contratto a tempo indeterminato che risulterà in esubero rispetto all’introduzione del maestro prevalente. A Taranto per esempio, quest’anno sono stati assunti duemila e duecento persone precarie, che l’anno prossimo saranno a spasso. Poi parlano della media europea, dove c’è un insegnante per tredici studenti contro i nove italiani. Non è scritto da nessuna parte che l’adeguamento è verso il basso. Quindi si è innalzato il limite massimo degli alunni per classe che va fino a ventisei, con una tolleranza del dieci per cento, quindi si arriva a trenta. Lo sciopero di giovedì è solo il punto di partenza.”

Abbiamo provato a calare la riforma a Martina e abbiamo notato che, in base alla norma che impedisce l’esistenza di scuole con meno ottanta alunni e l’accorpamento di quelle con meno di cinquecento, scomparirebbe immediatamente il liceo artistico, e le classi martinesi sarebbero tutte dirottate su Taranto. Poi non ci sarebbero più le scuole di campagna perché hanno una media di alunni, secondo i dati dell’anno passato, di trenta studenti. Alla fine scompariranno i professionali, come l’Istituto Motolese, e andranno a confluire negli istituti tecnici. Poi ci sono le scuole di infanzia, che a Martina sono 12, solo quelle statali, che dovrebbero essere raggruppate in due grandi asili da cinquecento bambini l’uno.

Però adesso tutti avranno il grembiulino…

“La Legge Carfagna è un tradimento”

Nonostante si dica che è il mestiere più antico del mondo, le discussioni sulla prostituzione sono sempre all’ordine del giorno. Soprattutto quando quest’argomento viene alimentato dalle polemiche prodotte dall’incapacità politica di affrontare il problema. Nel frattempo che ministri preti e soubrette si affrontano nell’arena televisiva, migliaia di ragazze sono per strada o chiuse in appartamenti oppure in viaggio verso l’Italia con la falsa speranza di intrecciare capelli o fare le badanti. Se da una parte si deve arginare il fenomeno intervenendo in maniera repressiva, dall’altro è necessario incrementare l’azione di protezione sociale che può permettere a queste persone, spesso vittime inconsapevoli di traffici assai lucrosi, una via d’uscita, condividendo le buone pratiche che il privato sociale ha sperimentato negli anni. Di questo si è parlato a “O-Scena: Le trame indicibili e invisibili della violenza sulle donne” in un convegno tenutosi giovedì 16 a Trani, organizzato dalla cooperativa sociale “Comunità Oasi2 San Francesco”. La giornata, che rientrava nelle attività previste dal progetto Interreg Italia-Albania chiamato “Shtepi” (casa), che prevedeva la collaborazione delle realtà pugliesi e albanesi che lavorano con chi è vittima di tratta e sfruttamento sessuale, ha visto il succedersi di molti interlocutori, che hanno condiviso con la platea le proprie esperienze riguardo l’argomento. Era impossibile, dato il tema, non commentare la famigerata legge Carfagna. Lo hanno fatto in maniera originale, da un punto di vista scientifico, dato che si tratta di addetti ai lavori, il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, Giuseppe Scelsi e la professoressa Patrizia Resta, antropologa dell’Università di Foggia. Nelle parole del sostituto procuratore, la legge Carfagna viene descritta pressappoco come un “tradimento”, da due prospettive diverse. La prima riguarda tutta la giurisprudenza internazionale, ossia la direzione che i legislatori hanno dato per la risoluzione del problema. Se sia nella storia del diritto locale ed europeo, si è cercato di concertare l’azione repressiva con quella inclusiva e di protezione, il disegno di legge della Ministra rende vani tutti gli sforzi fatti finora. Cacciando le prostitute dalla strada si nasconde il reato, il suo corpo, e questo rende più difficile l’intervento delle forze dell’ordine e degli operatori sociali. Il secondo “tradimento” è più intimo, e riguarda il contesto sociale ed emozionale da cui questa legge scaturisce: la paura. A tradire in questo caso è quello che non viene espresso ma che rimane implicito: la paura di questo fenomeno. E per paura si nasconde, si allontana dalla vista, dalla percezione. Il problema non solo non viene risolto ma viene allontanato dai sensi, applicando la terribile legge della propaganda: quello che non c’è non si vede. 

Alle parole di Scelsi fanno eco quelle della professoressa Resta che del fenomeno invece si occupa da un punto di vista scientifico. Al centro del suo discorso c’è il ruolo della cultura, intesa come produzione e diffusione delle conoscenze, e dell’importanza di essa nei cambiamenti sociali. Porta l’esempio della prostituzione albanese degli anni novanta, quando sulle strade pugliesi c’erano decine di ragazze provenienti dall’altra parte del Canale d’Otranto. Il meccanismo di reclutamento delle giovani donne era semplice: venivano fatte sposare con alcuni uomini con la promessa di un futuro migliore in Italia ma, sbarcate in Puglia venivano mandate per strada. Un tipo di organizzazione necessario perché le rigide leggi del Kanun, della tradizione orale albanese, impediva alle ragazze di lasciare la propria casa se non sposate. Solo attraverso l’attento studio del fenomeno e la sua divulgazione attraverso i mezzi di comunicazione anche albanesi ha permesso di arginarlo, intervenendo direttamente a monte del problema: le famiglie. Venendo a conoscenza del meccanismo perverso, i padri hanno impedito che questo si ripetesse oltre. Questa stessa pratica potrebbe essere usata per la versione moderna del meretricio, che vede per strada invece ragazze prevalentemente africane, nigeriane, andare alla radice e capire per intervenire direttamente a Benin City. Ma questo diventa difficile se, invocando un senso del pudore fittizio, funzionale alla propaganda politica, il fenomeno viene occultato, come la polvere sotto il tappeto. Oscene non sarebbero più le violenze ma le donne stesse.

Un movimento di opinione di operatori sociali e di addetti ai lavori si sta muovendo per impedire che la legge Carfagna renda nullo il lavoro di anni, fatto all’insegna della protezione e dell’inclusione delle ragazze vendute e comprate, vittime di un traffico malvagio. Antonella De Benedictis, responsabile dell’Area Immigrazione dell’Oasi2 non lesina parole dure nei confronti dei possibili scenari futuri che, sulla base del detto “occhio non vede, cuore non duole”, impediranno fattivamente alle organizzazioni sociali di intercettare le vittime del traffico di esseri umani, lasciandole per sempre in balia dei loro sfruttatori.