Giovanardi non ti fare, fatti la vita


Un gruppo di studenti parte per una gita in montagna, uno di loro si attarda, prende una bustina con presumibilmente delle pasticche di stupefacenti da un tipo che lo saluta alla maniera del vecchio west. Una ragazza, probabilmente la sua ragazza, lo guarda innervosita dal finestrino. Lui sale, ma lei non dice niente. Passano le montagne, invitanti di neve pura, bianca. Lui si addormenta e sogna. Sogna di una donna stupenda, ammiccante, bianca tra il bianco della neve gli si fa incontro. Ammiccante. Gnocca. Non è la sua ragazza. Si avvicina, ammiccante, gnocca, lo guarda e si accinge a baciarlo sul collo quando improvvisamente si trasforma in un mostro vampiro e tenta di mordergli il collo.

Ma è un sogno, tranquilli.

Perchè lui si sveglia, sono arrivati in montagna, è l’ultimo a scendere dall’autobus, si avvicina ad un fuoco acceso e butta le pasticche.

Parte la musica di Nek, compare una scritta giovanile:

Non ti fare, fatti la vita.

La prima volta che l’ho visto ho pensato ad un fake, ad un falso. La storia è quasi inconsistente, il messaggio è grossolano. La droga che sembra una bella donna ma in realtà è un vampiro. Poi contiene evidente elementi di sessismo: perchè una bella donna? E se fosse davvero stata una bella donna e non un vampiro, sarebbe stato un bene? E perchè non interviene la ragazza del “quasi-drogato”? E, per ultimo, non è che in realtà lo spot lancia il messaggio meglio la “neve” che le “paste”?

Dubbi.

Dubbi che riconducono alla percezione legata alla sostanza stupefacente, riconducendola nella categoria del Male Assoluto, dell’Orrore, della Paura. La droga deve fare paura, non dobbiamo avvicinarci, non dobbiamo conoscerla. Non dobbiamo sapere. La droga è tabù, il drogato è un paria che non dobbiamo avvicinare. Mi ricordo quando da piccolino prendevo con le forbici le figurire che brillavano perchè girava la voce che contenessero droga.

Quindi due considerazioni: la prima sul contenuto e l’altra sulla forma.

Contenuto: approccio terroristico, una campagna di comunicazione deve contribuire alla conoscenza del fenomeno, non alla messa al bando. Sarebbe come nascondere la polvere sotto al tappeto. Se a questo si aggiunge che Tremonti ha di fatto azzerato lo stato sociale, tagliando l’80% dei fondi destinati al welfare, diventa chiaro che l’obiettivo è la rimozione, l’esclusione, l’abbandono.  Del sessismo e dei doppi sensi ne abbiamo parlato prima.

Forma: il video è fatto dalla Spark Digital, una nota e brava casa di produzione (tipo “Fascisti su Marte”) scimmiottando un po’ troppo i virali che girano sui social network e su Youtube, come di quella ragazza in chat che si trasforma in orribile mostro. Nelle intenzioni del Dipartimento per le politiche antidroga c’è proprio quella di farlo girare tra le giovani generazioni affinchè possano essere sensibilizzate sull’argomento. Secondo Giovanardi & Co. l’intenzione era proprio usare le “stesse armi dei giovani”.

In sintesi, il video è ridicolo, sembra davvero un falso, ma potrebbe girare (come già sta avvenendo) proprio perchè sembra un falso. Non ti fare, fatti la vita! E adesso canta tu, Nek!

Poi, ad un certo punto, scopri che è tutta un’idea di Giovanardi, e capisci tutto.

A voi il video.

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Se non ora quando?

Anche a Martina Franca, in un avvilente silenzio mediatico appendice di quello nazionale, sono scese le donne per manifestare la propria volontà di non essere misurate attraverso i centimetri del seno. Ma cosa vogliono, in parole povere?

La lotta per la questione di genere è una strada lunga e piena di fraintendimenti, doppi sensi, rendite di posizione. In effetti non è semplice capire cosa come e dove vogliono arrivare. Io scrivo da maschio, ovvio, da maschio che non ha capito fino in fondo quale disagio può vivere una donna in un sistema che riconosce nell’immagine un ruolo fondamentale nel giudizio dell’individuo.

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Settecento di questi giorni

“Eppur si muove” oppure “non chiedere cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Vengono in mente tante citazioni durante l’incontro organizzato da Carlo Centrone, un tam tam sui social network che ha riempito la sala di Cristo Re. Tante persone, tante realtà, tante appartenenze. Anche politiche, nonostante sia chiaro dagli intenti dell’organizzatore e dai commenti in sala che proprio per le mancanze della politica ci si è trovati in una serata fredda di febbraio per organizzare “il compleanno di Martina Franca, il mio compleanno”, come ha detto Marangi della Ghironda.

Le parole di Centrone rimbalzano tra le file di sedie occupate, facce interessate, attente. Il progetto parte da un semplice assunto: l’Amministrazione Comunale pare non voglia assolutamente fare nulla per festeggiare adeguatamente il settecentenario della città. A questo punto, stanchi della solita ignavia dei politicanti locali, perchè non mettersi tutti insieme e organizzare la festa fatta dai martinesi per Martina Franca? Cittadini, associazioni, professionisti, imprenditori: tutti insieme in un’associazione che muore per statuto allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2011. Un’ATI, in pratica.

Guardandosi intorno, è evidente che c’è una cosa che accomuna tutti, dagli scout all’editore, dall’architetto al fotografo, all’operaio all’ex candidato consigliere. L’esclusione. Un’assemblea fondata sull’esclusione. Cosa hanno in comune tutti quanti? Il fatto di essere stati in qualche modo esclusi dagli ultimi 10 anni di vita politica/economica/sociale martinese. Esclusi dalla cricca che ha spartito potere e lotti di terreno, soldi per le manifestazioni e concessioni edilizie. Esclusi. Certo, non tutti sono ugualmente esclusi. Non è possibile paragonare un’associazione come la Ghironda a Terra Terra, sia per attività che per fatturato, ma entrambe, in qualche modo, sono state escluse.

Quindi eccoci qua, a rispondere “presente” alla chiamata di un cittadino tra i tanti (manco tanto) che ha preso la tastiera e ha creato l’evento su Facebook, ha coinvolto gli amici, ha chiesto di esserci. Una riunione che per il sottoscritto è costata due ore e mezzo di treno e una levataccia domani mattina per tornare a lavoro. Ma bisognava esserci per dire, insieme agli altri: “Eccomi, anche io sono un escluso”.

La politica è lontana, deve essere, a sua volta, esclusa da questo movimento (perchè è un movimento). Eppure l’assemblea di stasera è uno dei gesti più politicamente significativi che si sono fatti in città negli ultimi anni. Molti vogliono tenere fuori consiglieri e assessori, come in una sorta di vendetta civile, di boicottaggio democratico. Il popolo degli esclusi decreta che gli esclusori saranno esclusi. Eppure siamo sicuri che in sala c’è qualcuno che quelli (gli esclusori) li ha votati, magari ha anche fatto campagna elettorale.

Ma non importa. Non stasera.

 

I mandanti della strage di Filandari

Mi viene da iniziare con: “io so ed ho le prove”, ma è una frase abusata ultimamente. Eppure non trovo attacco più adatto per tentare di raccontare cosa è successo in Calabria, Filandari, in provincia di Vibo Valentia, nel tardo pomeriggio di lunedì scorso.

Una famiglia sterminata da un’altra famiglia per motivi di terra, per la “roba”, come si sono affrettati a dire alcuni commentatori, facendo sfoggio di cultura verista. Una notizia che fa notizia perchè il mandante questa volta non è un boss di qualche ‘ndrina, ma un capofamiglia qualsiasi che decide di punire/vendicarsi di quei vicini che si approfittavano della sua terra per far pascolare le vacche o le pecore.

Un problema di attaccamento alle proprie cose, il risultato della cultura familistica del sud profondo, della Calabria Saudita, come ci ha prontamente ricordato Libero, un problema di struttura più che di contenuto, qualcosa che arriva dalla radice profonda del calabrese. Mi sorprende, a dirla tutta, che nessuno abbia tirato in ballo l’atavica lotta degli allevatori contro gli agricoltori e viceversa.

Eppure, c’è qualcosa che non mi quadra.

Non mi quadra la faciloneria con cui si bolla tutto come un problema culturale e quindi non malavitoso, un problema endemico, congenito del sud più profondo, la leggerezza con cui si bolla tutto con: da quelle parti si usa così, che ci vuoi fa’?

Non quadra.

Non quadra perchè avrebbe senso se Filandari fosse un’isola spersa nel mar dei Sargassi, se fosse un satellite sperduto di Urano, se fosse in una grotta di un cratere di Marte.

Filandari invece è un paese in provincia di Vibo Valentia, in Calabria, nell’Italia dei 150 anni, nell’Europa dell’Euro, nell’anno del Signore 2010 (quasi 2011). Filandari è qui e ora, appartenente allo stesso mondo di Nespoli, dell’astronauta che scatta dallo spazio una foto che riprende le mille luci dello Stivale nelle notti natalizie.

Non quadra, per niente, che i maschi della famiglia Fontana siano stati levati dalla faccia della terra per l’arcaico attaccamento alla “roba”, che lava le offese col sangue, che risolve i problemi col calibro 9, che mette pietre a forma di croce sopra le discussioni.

La cultura, ci insegnavano all’università, è il risultato dell’ambiente umano, del contesto sociale, del paesaggio geografico. La cultura dipende dai riti che ci tramandiamo da padre in figlio all’ultimo libro letto, dal Tg di Minzolini ai programmi di Fazio. Nel mondo 2.0, mentre Wikileaks abbatte le frontiere del segreto diplomatico, sui monti calabresi si ammazza ancora per un ramo spezzato. Non quadra.

Non quadra a meno chè non ci allontaniamo dal livello locale e proviamo ad alzare lo sguardo. Ci accorgiamo allora che queste cose trovano fondamento in un sistema che, a diversi livelli, legittima l’essere con la quantità dell’avere, che definisce di successo un uomo con il SUV e una velina abboccata tra le sue gambe. Un sistema che arricchisce la criminalità organizzata grazie ai suoi vizi. E non viceversa.

Ad un livello più alto, senza arrivare alle altezze della stazione spaziale MIR, ci accorgiamo che alcune affermazioni, alcune parole, alcune frasi, sembrano ripetute più per sentito dire che perchè si abbia davvero contezza del significato. Quando si dice che lo Stato è lontano da questi luoghi (da Filandari, ma anche dalle strade della periferia di Andria, o dalle parti di Terzigno) si nomina il colpevole senza rendersene conto.

Sono i cittadini ad essere lontani dallo Stato o è lo Stato ad essere lontano dai cittadini?

Le due affermazioni non godono della proprietà commutativa: se le istituzioni (scuola, municipio, sanità, etc etc) sono percepite come distanti, vuol dire che, al netto delle motivazioni, esse lo sono davvero, perchè in una società di diritto non ci dovrebbero essere figli minori.

Eppure questo accade e sempre di meno ce ne scandalizziamo. Forse perchè siamo stati educati attraverso grandi opere di narrazione collettiva che se a Filandari una famiglia uccide un’altra è normale, perchè siamo nel meridione della monnezza e della camorra, del malaffare, della malasanità diffusa, della corruzione. Un Sud i cui cittadini sono vittime della Storia e non protagonisti, in cui il morso della taranta si è tramutato in qualcosa di più profondo, in cui le modalità di esserci seguono ancora schemi mentali medievali.

Dire che la strage di Vibo Valentia è un regolamento di conti tra due famiglie meridionali attaccate alla “roba” e lontane dal “diritto”, vuol dire contribuire a diffondere il meme (qui il significato della parola, e qui un esempio del loro potere) del Sud arretrato e medievale, brutale, animale, un modo di pensare razzista che non fa altro che legittimare comportamenti simili. Dire della strage di Vibo che accade perchè al Sud si usa così, vuol dire ammettere lombrosianamente che i meridionali sono diversi dagli altri, vuol dire ammettere che la “natura” degli uni è diversa da quella degli altri. In sintesi, significa essere razzisti.

Non ci sono leggi della terra, usanze tramandate di padre in figlio, nelle terre del sud dove “ci sono più pistole che forchette” queste cose accadono perchè lo Stato è assente, o quando c’è è corrotto e malaffarista, uno Stato i cui poteri forti collidono con le cupole mafiose, che tratta i cittadini come sacche di votanti, che si scandalizza se si ammazza, salvo poi proteggere le mani degli assassini, perchè, in fondo si è complici. Una questione di classe, in sintesi, in cui gli ultimi si ammazzano con i penultimi solo per divertimento dei primi che campano vampirizzando chi sta sotto di loro. I mandanti della strage di Vibo siamo noi meridionali che permettiamo che di noi si parli ancora in questo modo.

Roberto Saviano non è il mio eroe

Non è facile parlare di Roberto Saviano senza cadere in trappole linguistiche, barriere semantiche, tranelli del politicamente corretto. Eppure di Roberto Saviano bisogna parlare perchè è un personaggio pubblico, una persona che ha la capacità di influenzare l’opinione pubblica, perchè, in buona sostanza, detiene un potere.

E del potere bisogna parlare, perchè altrimenti il potere si tramuta in dominio e non possiamo che rimanerne soggiogati.

Ieri, dalle pagine di Repubblica, ha lanciato un accorato appello al movimento degli studenti chiedendo di dissociarsi dalla violenza che ha connotato una parte della manifestazione del 14 dicembre. Quello che emerge dalle sue parole è una sorta di aura di saggezza che vorrebbe infondere a chi lo legge.

Ma ieri è stata la lampante dimostrazione di quello che è diventato il fenomeno Saviano, oltre l’innegabile merito che deriva dal suo ruolo di giornalista e scrittore. Ieri Roberto Saviano ha preso carta e penna e ha recitato la parte di quello che dispensa consigli, rientrando perfettamente nel ruolo che la società gli ha affibiato. Quello di icona.

E quindi è dell’icona Roberto Saviano che diventa urgente parlare, del marchio, del simbolo, dell’ipse dixit da condividere sui social network, delle trasmissioni televisive costruite intorno a lui. Un giornalista che ha scritto di camorra, che ha fatto i nomi dei boss e dei killer, che ha raccontato le malefatte del “sistema”, che ha avuto minacce di morte e per questo è stato messo, giustamente, sotto scorta. Un simbolo, quindi, della lotta contro la corruzione, contro la mafia, contro i poteri occulti che manovrano nel buio e dispongono della nostra vita e della nostra morte.

Questo ha fatto di lui un eroe, dandogli un potere enorme, che ieri ha espresso (male secondo me) nei confronti del movimento.

E non tutti sono stati d’accordo (fortunatamente).

Criticare un eroe popolare come lui, nel panorama sociale che si è costruito nel tempo,  diventa automaticamente voler fare il gioco dei camorristi, accendere la macchina del fango. Fargli del male. Quindi guai a criticarlo.

Solo che sono le sue parole ad essere oggetto di critica, perchè delle sue parole discutiamo e ci confrontiamo, e farlo non significa non riconoscere a lui un ruolo importante. Le sue parole, pubbliche perchè pubblicate, devono essere lette con lo sguardo critico con cui leggiamo il resto. Non può una sua lettera essere un pontificato. E difenderlo acriticamente significa fare il gioco di coloro che tentano ogni giorno di lasciarlo solo. Perchè, è questo il punto, nel momento in cui il sistema mediatico in cui viviamo lo ha fatto simbolo/icona/eroe lo ha reso sacro, nell’accezione latina del termine, quindi diviso, distante, lontano da noi. Così lontano che Roberto Saviano è diventato LA lotta alla mafia e non un esempio di lotta alla mafia. La sua stessa esistenza è diventata simbolo e tutti ci siamo affrettati a riconoscergli la sacralità. Ma il risultato finale è che la dimensione della lotta alla mafia è stata definitivamente allontanata dalla misura dell’uomo comune ed è stata riservata a coloro che hanno le palle di sacrificare la propria vita. Roberto Saviano non è un esempio, ma L’esempio di cosa si deve fare per combattere il malaffare organizzato.

E sfido chiunque di noi ad avere gli stessi contatti, le stesse voglie, le stesse prospettive di Saviano.

L’icona Saviano è l’avvertimento che a combattere la mafia si finisce come lui: chiuso in caserma in mezzo ai carabinieri.

Quindi la dimensione del “sacro”, del “diviso”, che da un lato l’allontana da noi e dall’altro allontana noi da lui. Per questo le sue parole sul movimento sono pericolose, perchè arrivano da un livello metaterreno da cui parlano solo gli eroi. Le sue parole sono pericolose perchè a dirle è un simbolo, un’icona. E per questo non possono che essere accettate o negate, non criticate, mai confutate, altrimenti violento si manifesta l’anatema.

Roberto Saviano, se vuole, può essere il mio compagno, mai il mio eroe.

Di seguito due post critici nei confronti della lettera agli studenti:

“Lettera a Roberto Saviano” del collettivo Femminismo a Sud

“Risposta di Valerio Evangelisti a Roberto Saviano” di Valerio Evangelisti

Dov’è la rabbia?

Dov’è la rabbia quando un premier si sollazza con le ministre e la gente si suicida perchè non trova lavoro?

Dov’è la rabbia quando le ministre diventano ministre solo perchè costano meno di una moglie e sono più ubbidienti?

Dov’è la rabbia?

Dov’è la rabbia quando Marchionne dice che l’Italia è una palla al piede?

Dov’è la rabbia quando muore un operaio?

Dov’è la rabbia quando ti dicono che purtroppo ti devono licenziare?

Dov’è la rabbia quando non prendi lo stipendio?

Dov’è la rabbia quando tutto aumenta e non puoi acquistare nulla?

Dov’è la rabbia quando i mafiosi al comune perdono i milioni di euro dei finanziamenti europei?

Dov’è la rabbia quando a costruire case è solo uno e detta il prezzo del mercato?

Dov’è la rabbia quando non vedi futuro, non vedi presente, non vedi vie d’uscita?

Dov’è la rabbia quando per vent’anni ti hanno insegnato a non fidarti dei comunisti, dei sindacati, dei pacifisti, degli ambientalisti, dei pazzi che dicevano che forse così non andava bene?

Dov’è la tua rabbia, quando ti licenziano, quando mettono in cassa integrazione tua moglie, quando tuo figlio ti chiede i soldi per i libri, ti chiede la palestra, la chitarra, quando la tua ragazza non ha un regalo da tre anni, quando il tuo ragazzo chiede aiuto per il mutuo?

Dov’è la rabbia, quella che unisce che ci fa urlare che ci fa correre, che ci mette insieme, che pretende i diritti, li afferra con i denti, la rabbia che sanguina giustizia e democrazia, la rabbia feroce della rivolta contro l’oppressione?

Dov’è la rabbia?

Dove?

Lasciata per strada in cambio di un auto nuova, soffocata sul divano tra soap e reality, svenduta per un posto a nero, stracciata e gettata come il gratta e vinci che ti ostini a comprare sperando di cambiare la tua vita.

Dov’è la rabbia quando ti fottono la salute e ti ricattano perchè o così o niente?

Dov’è la rabbia quando intorno non vedi che gente indebitata, oppressa, distrutta, quando basterebbe andare a bussare con insistenza a chi ha comprato i nostri diritti per un piatto di lenticchie prodotte in Cina?

Dov’è la rabbia che agita le strade, le menti, che stringe forte l’idea di un mondo migliore?

Dov’è un mondo migliore?

Nelle nostre scelte quotidiane, nella capacità di stare fermi un giro e guardare oltre, immaginare cosa sarà.

Cercate la rabbia, per favore, alzate tappeti, svuotate cassetti, sventrate gli armadi. Da qualche parte ci dovrebbere essere, magari arrotolata con il diario del liceo, con la bandiera di Che Guevara. Sempre che non l’abbiate scambiata per un abbonamento a Mediaset Premium.

Stare nel mercato

Non comprare è potere.

Non possiamo esimerci dallo stare nel Mercato. Ogni giorno, quasi ogni nostra azione ci fa interagire con il Mercato: compriamo, vendiamo, consumiamo. Stiamo nel Mercato, siamo il Mercato.

Ma così come scegliamo di stare nello Stato, supportando o contestando, manifestando o perorando alcune idee, alcune parti a discapito di altre, tentando in qualche modo di influenzare con le nostre azioni e le nostre parole l’andamento delle cose, così possiamo stare nel Mercato, tentando di influenzare con le nostre scelte le scelte di chi lo dirige.

La mutazione dell’individuo da cittadino (portatore di diritti politici) a consumatore (portatore di portafoglio) in un primo momento ha destabilizzato la nostra consapevolezza riguardo il potere individuale, ma a parte una resistenza che è stata a mano a mano fiaccata portandoci letteralmente alla fame, ben presto abbiamo quasi tutti trovato il nostro posto al caldo nel mondo-mercato globale.

Se così non fosse, la spinta a delocalizzare la produzione e quindi la tendenza ad allargare la forbice tra ricchi (sempre più ricchi perchè i costi di produzione sono cinesi e i prezzi al dettaglio sono occidentali) e poveri (sempre più in miseria perchè precarizzati e quindi impoveriti della capacità di costruirsi autonomamente un futuro, oppure addirittura ridotti sul lastrico a causa delle scelte di delocalizzazione) sarebbe stata sicuramente più difficoltosa. In parole povere cioè, se non si fossero annientate negli ultimi 20 anni le forme di resistenza al liberismo riducendole a poche enclavi di eretici, Marchionne non avrebbe avuto la libertà di dire quello che ha detto da Fazio.

L’individuo mutato in consumatore si ritrova quindi in un mondo ostile dove non ha nè il diritto di influenzare la scelta politica (la farsa del bipolarismo e l’eccessiva delega sono due esempi) nè il diritto di partecipare alle scelte ecomiche in maniera attiva, essendo stato estromesso violentemente dai processi di produzione.

L’individuo/consumatore può solo comprare. E il gesto dell’acquisto, sempre con i suoi naturali limiti, sembra essere l’unica espressione di libertà concessa nel 2010 ai cittadini. Perchè comprare significa possedere e il possesso è la misura dell’essere umano (nella società liberista). Se non hai un lavoro (se non puoi consumare) non puoi essere cittadino italiano (v. legge Bossi-Fini).

Possiamo però ancora scegliere COSA comprare e soprattutto DA CHI. In questa scelta si esprime tutta la potenza della libertà che ci è rimasta. Possiamo scegliere di non comprare i prodotti di Israele finchè non termina il genocidio palestinese, possiamo scegliere di non comprare Coca Cola per le sue politiche in America Latina e in Africa, possiamo scegliere di non comprare Nestlè perchè è la multinazionale simbolo dell’imperialismo, e via boicottando. Questa libertà di scelta deve però, secondo le necessità imposte dalla crisi, espandersi non solo ai simboli del male, ma anche a tutto quello che impoverisce il nostro territorio. Non comprare automobili Fiat potrebbe essere la migliore risposta ai piani di Marchionne, non vestirsi Miroglio (Elena Mirò, Motivi…) è il gesto più potente che possiamo fare.

 

Da Taranto a Roma con Di Vittorio

“Il lavoro è un bene comune” – con la delegazione tarantina alla manifestazione della Fiom

C’è Di Vittorio con noi nel pullman che ci porta a Roma alla manifestazione “Il lavoro è un bene comune” indetta dalla Fiom. La sua storia scorre attraverso le immagini della fiction Rai interpretata da Favino che scorrono sui teleschermi del pullman. Macinando kilometri, rivivendo la nascita della Cgil, diretti verso Roma a ribadire che non tutti sono d’accordo che il lavoro diventi la vittima sacrificale della crisi economica. Né il lavoro e né tantomeno i lavoratori. Soprattutto i lavoratori.

Partiamo da Taranto prima dell’alba, le luci dell’Eni e dell’Ilva brillano lugubri nel buio di questo sabato di manifestazione. Imbocchiamo la statale, poi verso Massafra e quindi sull’autostrada. Cinque sono i pullman che partono da Taranto, dieci da tutta la provincia. Operai, studenti, militanti, comitati di quartiere, operatori sociali, pensionati, migranti. Tutti diretti all’appuntamento a Roma: quando la Fiom chiama, non si può non rispondere.

La prima fermata è per il caffè, incrociamo due autobus di pellegrini con la foto della Madonna di Lourdes sul parabrezza. Sul nostro campeggia la scritta Fiom Pullman n. 4 e un pupazzo di Hello Kitty. Prima di salire i discorsi si fanno subito duri: i lavoratori somministrati Ilva, precari della metallurgia, si lamentano del fatto che non ottengono risposte né dall’azienda né dal sindacato. La questione è sempre la stessa: essere assunti, non essere assunti, rimanere precari o disoccupati. E poi c’è la questione ambientale, che emerge sempre e comunque ogni volta che si parla dell’Ilva. Nico chiude la discussione dicendo: «Non mi possono chiedere di barattare la città con un posto di lavoro».

 

La delegazione della Fiom di Taranto

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Daniele Durante sulla Notte della Taranta

In esclusiva (per tutti gli utenti internet e in anteprima su Officina) un paio brevissime di battute di Daniele Durante, fondatore del Canzoniere Grecanico Salentino, sulla Notte della Taranta.

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Non c’è tempo per entrare nel merito delle sue parole o in cosa è davvero la Notte della Taranta. Si può solo dire che, ad ascoltare bene le parole di Durante,  c’è tanto da riflettere.

Puglia – Roma, il viaggio della speranza

Alle sei di pomeriggio di lunedì, alla stazione ferroviaria di Trani, il sole stava tramontando e colorava il cielo di un giallo tenue, primaverile, i grilli riempivano l’aria di quei toni di vacanza che fanno stringere il cuore e sorridere felici. Alle sei di pomeriggio alla stazione di Trani regnava un sentimento di pace in terra che, a detta dei più maliziosi, faceva intendere cosa sarebbe accaduto di lì a poco.

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