Dopo ore di trattative tra sindacati e amministrazione, finalmente si raggiunto un accordo di programma tra le parti. La casa di riposo deve chiudere temporaneamente, giusto il tempo di fare gli interventi restaurativi dell’immobile. Nel frattempo gli anziani ospiti saranno ospitati in strutture private, la cui retta sarà tutta a carico del Comune. I lavoratori invece saranno temporaneamente assegnati ad altre mansioni, che rientrano però nelle loro competenze. La cosa importante, come si evince dal protocollo di intesa, è che sarà costituito un tavolo paritetico tra Comune (rappresentato dal Sindaco e dall’assessore ai Servizi Sociali), da un rappresentante per sindacato e da un rappresentante per i lavoratori. Il tavolo avrà il compito di monitorare l’andamento dei lavori e il rispetto del protocollo. Si è aperta una speranza quindi, l’amministrazione, messa davanti alle sue responsabilità, ha fatto il suo dovere: salvaguardare il benessere dei cittadini e per Martina c’è stata una grande lezione: scendere il piazza paga…
Category Archives: Martina Franca
Contro la chiusura della casa di riposo comunale
Ecco che si palesa la volontà di privatizzare tutto il privatizzabile, a partire dai servizi sociali. A Martina Franca l’amministrazione Palazzo ha deciso che la casa di riposo comunale, che ospita 13 persone, deve chiudere. Martedì 31 lo sgombero e il trasferimento degli ospiti in strutture private. I sindacati, capeggiati da un’agguerrita Isabella Massafra, dicono no e sabato scorso hanno indetto una manifestazione in cui si proponeva la strategia della lotta contro la decisione del Comune. La gente, non è il caso di dirlo, esasperata ha avuto modo di esprimere quello che pensa del Palazzo Ducale. Ascoltare per credere…
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“Giù le mani dall’asino di Martina Franca”
Grande scalpore hanno suscitato le vicende dei quasi duecento asini custoditi a Masseria Russoli, ma forse ci sono altri interessi dietro tanta premura equina
La maestra delle elementari ci faceva tagliare del cartoncino e con questo facevamo un cono e due orecchie lunghe da appiccicare sopra. Era il cappello del ciuco, dell’asino, che si doveva mettere in testa l’ultimo della classe. Non è un bel ricordo, risveglia antichi timori, quello di non essere adeguato, pronto, intelligente. Vedendo gli asini della masseria Russoli, in una soleggiata mattinata di marzo, sono stati questi i primi pensieri venuti in mente. Guardare questi animali che da settimane hanno scatenato un’accesa bagarre politica a Martina Franca, con il coinvolgimento nientepopodimenochè di Striscia la Notizia, mi ha fatto pensare ai tempi della scuola, in cui essere “ciuccio” era un problema. Ora invece su internet e sui giornali, si fa a gara per dimostrare chi è più amico dell’orecchiuto animale.
Quello che sta accadendo, in sintesi, è che il centro di salvaguardia dell’asino martinese, presso la masseria Russoli, non si capisce da chi deve essere gestito, la Regione pare faccia orecchie da mercante e intorno iniziano a girare i soliti avvoltoi pronti a cibarsi dei cadaveri. Nel 2005 la Giunta Regionale decide di non rinnovare la convenzione che da dieci anni dava al Corpo Forestale la gestione della struttura. Durante questo tempo la Forestale affidava il controllo e la cura degli animali a una coppia di custodi e ad alcuni operai. Essi garantivano che tutto si svolgesse per il meglio e la Forestale nel frattempo provvedeva ai lavori di restauri e di mantenimento della struttura. Nel 2007 scade l’ultima convenzione, gli operai tornano a casa e alla masseria rimane solo la coppia di custodi, che nel centro, appunto, abitava. La Regione decide allora di dare al Centro Incremento Ippico di Foggia la cura della Masseria, ma non si esprime sulle sorti dei due custodi che, per legge, sarebbero dovuti passare automaticamente alla cooperativa di Foggia. Questo stava per accadere, se non fosse che, il signor Marangi, in attesa di risposte dalla Regione, si era rivolto all’avvocato Terrulli, che gli aveva consigliato di non accettare la proposta di assunzione, seppur di tre mesi, fatta dalla cooperativa. Quindi scoppia il caso: l’avvocato chiama i giornalisti, che giustamente si avventano sull’osso riportando quanto stava accadendo. Insieme a loro si avvicina al caso, paladino di giustizia, il consigliere comunale Paolo D’Arcangelo, facendo sua la questione. Viene tirata in ballo la Regione che, senza alcun rimorso, preferisce far morire gli asini invece che occuparsi della faccenda. Nel frattempo i due operai che lavoravano lì hanno perso il posto e il custode e la moglie rischiano di essere sfrattati e, come a suggellare il momento di crisi della questione, un asino decide di morire impantanato nel fango. In un’interrogazione consiliare fatta da Nino Marmo di AN, l’assessore Russo risponde che l’asino sia morto di vecchiaia, mentre secondo i veterinari è morto di polmonite causata dal grande freddo che faceva in quel periodo. Non solo, ma l’assessore dice che la vicenda è stata montata ad arte. La domanda è da chi e per quale motivo.
Se lasciamo un attimo da parte la strumentalizzazione politica da parte di qualche consigliere comunale, la vicenda appare abbastanza ingarbugliata: la masseria fa gola a molti e che la Regione si riservi il ruolo di gestirla crea problemi. Senza nulla togliere alla vicenda in sé, cioè che la mancanza di manodopera mette a dura prova l’esistenza della comunità asinina, gestire un posto del genere significa poter accedere a una quota cospicua di soldi pubblici. Nel frattempo, a parte il gruppo nato su Facebook che domenica organizza in piazza una raccolta firme per chiedere, in soldoni, che la gestione della masseria passi dal pubblico al privato, su internet ci sono alcuni forum tematici in cui ci sono notizie più concrete. In una dichiarazione rilasciata da D’Arcangelo a Cronache Martinesi, si legge che sarebbe stato meglio affidare Russoli e gli asini a chi non avrebbe permesso loro il deperimento. Interpellato sull’argomento, dice di non avere nessuno di preciso in mente, ma che sarebbe meglio una società privata. I nomi possiamo provare a farli noi: il primo è Onos, una società con sede a Palagiano che si occupa di commercio di latte di asina, con cui, nel 2007 il comune di Crispiano aveva stipulato un protocollo di intesa per un non specificato programma di interesse collettivo alla masseria Russoli. Il secondo nome è quello dell’ Associazione Nazionale Allevatori del Cavallo delle Murge e dell’Asino di Martina Franca, che si dice disposta ad appropriarsi del centro e che, fondamentalmente, la gestione che avveniva fino a pochi anni fa era migliore: gli allevatori avevano in comodato d’uso le fattrici e poi potevano tenersi i puledri. Se proviamo a tirare le fila della vicenda abbiamo da un lato una comunità di asini che non può essere gestita da due sole persone e dall’altro invece alcuni avvoltoi pronti a cibarsi dell’osso. Ma per farlo, la Regione deve farsi da parte, deve essere spinta a lasciare. In questo interviene la stampa e Striscia la Notizia, che non fa altro che alzare il polverone, per nascondere meglio il volo degli avvoltoi che si fa sempre più basso che, naturalmente, non hanno alcun interesse ad inimicarsi l’ente pubblico. A questo punto, ci chiediamo, a chi si riferisca realmente il nome del gruppo nato su Facebook “Giù le mani dall’asino di Martina Franca”.
Arrivati alla masseria, un gruppo dei 181 asini ospiti, pascolavano placidamente nell’erba tagliata di fresco, alcuni stesi a sonnecchiare e altri invece a mangiare i germogli degli ulivi. Alla vista del cronista e della macchina fotografica, sono scappati impauriti, segno questo che tutto l’interesse suscitato dalla vicenda, li ha infastiditi un po’.
LA DIFFERENZIATA, QUESTA SCONOSCIUTA
Oggi pomeriggio incontro sui rifiuti all’auditorium Cappelli. Cgil Cisl e Uil: dal Comune serve trasparenza.
Qualche mese fa, passando a piedi dalle parti del Carmine, si poteva notare un cassonetto particolare. Attirava l’attenzione perché aveva sul davanti l’adesivo con su scritto “Comune di Scanzano”. Era proprio davanti al tabaccaio che sta di fronte alla scuola elementare. Un vecchio cassonetto di come ce ne sono tanti in giro, ma diverso perché recava con sé il marchio di un’altra vita. Diciamo un cassonetto di seconda mano. Ma se il riutilizzo di qualcosa, a maggior ragione se a farlo è una ditta di smaltimento dei rifiuti, non deve preoccupare, il nome Scanzano invece rievoca brutti ricordi, legati guarda caso ai rifiuti. Tossici. Anni fa infatti, i cittadini di Scanzano Jonico si mobilitarono in massa per dire no alla presenza dei rifiuti tossici. La città di Martina, forse solidale con la loro lotta, ricorda quell’evento ospitando un cassonetto (l’unico di cui abbiamo notizia) di quel comune. La foto del cassonetto fu pubblicata dallo scrivente sul blog Officina Narrativa e immediatamente dopo l’adesivo è stato strappato.
Intanto per oggi pomeriggio i sindacati confederali, Cgil Cisl e Uil, organizzano un incontro che ha per tema proprio i rifiuti, in cui parleranno amministratori comunali provinciali e regionali. Uno dei motivi dell’incontro, si legge sul documento unitario dei sindacati, è la tassa sui rifiuti che ogni anno aumenta del 50 percento. Un aumento che sarebbe giustificato da un corrispettivo aumento della produzione di immondizia, ma dai dati si evince il contrario. Sarà legato alle penalità che il Comune paga per non aver raggiunto gli obiettivi di raccolta differenziata, o a varie irregolarità. Una fra le tante, si legge nel documento, è il fatto che non si fa una gara d’appalto per lo smaltimento dei rifiuti da almeno sei anni, prorogando di anno in anno il capitolato stipulato nel 1993 con la Tradeco. Al comune rispondono che dipende dall’Ato, da Massafra, dal sindaco Tamburrano, ma interpellata mesi fa sull’argomento l’assessore martinese competente, la vicesindaco Maffei, non ha risposto. Anzi, ha negato l’intervista più volte, dicendo di non conoscere l’argomento. Per questa sera si spera abbia studiato.
Poi c’è la raccolta differenziata, croce e delizia di ogni amministrazione pubblica, due parole tanto abusate ma di cui non si conosce il significato. A Martina tempo fa uscirono titoli cubitali sui giornali in cui si diceva che grazie all’amministrazione Palazzo la raccolta differenziata era aumentata del 50 percento. E basta. Non si diceva che il 50 percento del tre percento è un nulla. Secondo gli obiettivi imposti dalla Regione, a loro volta mutuati dall’Unione Europea, avremmo già dovuto essere intorno al 40 percento, mentre Martina è ferma al quattro. E non è un problema del sud, dato che abbiamo esempi vicinissimi di raggiungimento di questi obiettivi, come a Palagianello o a Ceglie Messapica, in cui sono stati addirittura eliminati i cassonetti.
Sia Isabella Massafra che Augusto Busetti, interrogati sull’argomento, rispondono che l’incontro è stato organizzato anche perché il Comune non ha mai risposto alle richieste dei sindacati di chiarire la faccenda, a loro volta spinti anche dalle migliaia di cittadini che sono costretti a pagare sempre più tasse. In primo luogo chiedono trasparenza, nei rapporti con i cittadini e nelle pratiche di gestione dei rifiuti, trasparenza che è sempre mancata. Essi si augurano che oggi alle sei di pomeriggio, con i rappresentanti locali, la sopracitata Maffei, il consigliere Pentassuglia, l’assessore provinciale Conserva e l’assessore regionale Losappio, possa essere un momento di partenza per la risoluzione della questione.
Intanto il cassonetto di Scanzano, nonostante abbiano strappato via l’adesivo, continua ad essere lì, incurante di quello che accade intorno, a monito perenne di quello che potrebbe accadere se i cittadini tutti manifestassero il proprio dissenso.
Vivere con duecento euro al mese
Intervista a Teresa Palmisano, disoccupata da tre anni, che prende carta e penna e scrive ai giornali
È arrabbiata Teresa. Stanca delle pratiche che si bloccano negli uffici, dei tempi che si allungano, della tranquillità perduta. Teresa Palmisano è un’operaia impiegata nel tessile di Martina Franca, il marito lavora in un impresa edile. Entrambi licenziati, lei da tra anni ormai, lui da novembre. Ha usufruito degli ammortizzatori sociali previsti, la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ora aspetta la cassa in deroga, quella garantita dalla Regione, dato che quella statale si è esaurita.
È l’ennesima vittima di quella crisi del settore tessile che sta lentamente erodendo tutto il tessuto produttivo martinese, arrivando al licenziamento di più di metà degli addetti. La crisi del settore viene moltiplicata per la crisi sistemica che sta colpendo il credito, le banche. Non essendo un periodo roseo e non potendo rischiare, queste sono restie a prestare denaro alle aziende per gli anticipi sulle commesse. Le ditte, soprattutto le più piccole, le contoterziste, chiudono per sempre. Nel frattempo in città tutto scorre come se nulla fosse, ma il fiume pestifero di disoccupazione ha la fonte molto in alto (la ditta di Teresa, la Fides, ha licenziato 37 dipendenti tre anni fa) e non se ne intravede la foce.
La settimana scorsa, Teresa prende carta e penna e scrive una lettera ai giornali, per raccontare quello che sta accadendo. La incontriamo alla Camera del Lavoro di Martina Franca, dove ogni giorno aiuta gli altri come lei a sbrigare pratiche.
Cosa ti ha spinto a scrivere?
L’impossibilità di tenermi tutto dentro, la rabbia di vivere questa situazione, l’impossibilità di risolvere. Non sono una che si lamenta, non racconto la mia esperienza a tutti. Non so cosa mi sia preso, ma ad un certo punto non ce l’ho fatta più.
Rabbia contro chi, contro cosa?
Contro la situazione, l’impossibilità di vivere normalmente, contro il Governo, che sembra consideri me e quelli nella mia stessa condizione come ferri vecchi da buttare, da mettere da parte. Mi sento messa da parte, di non poter fare nulla. Sono arrabbiata con gli uffici che bloccano le pratiche, con la lentezza dell’Inps. L’altro giorno sono andata all’Inps, all’ufficio di Martina, per chiedere notizie sulla pratica della mia cassa in deroga. L’impiegato mi ha risposto che dipende dall’azienda, e non da loro. Bene, ho dovuto spiegare all’impiegato dell’Inps di Martina come funziona: una pratica del genere è di competenza loro e non dell’azienda. Poi ce l’ho con chi nonostante è in cassa integrazione, chi ha l’assegno di disoccupazione, lavora a nero. Con i pensionati che lavorano a nero.
Dove lavorano a nero?
In alcune aziende, che preferiscono avere manodopera non regolare. Tante delle mie ex colleghe lavorano, anche se sono in cassa integrazione. Mi chiedo se sia giusto che uno abbia il doppio stipendio e noi in casa nemmeno uno.
Cosa succede in casa tua?
Io prendevo mille euro di cassa integrazione straordinaria, che si è bloccata a novembre. E il 15 di quel mese mio marito ha perso il lavoro. Lui guadagnava ottocento euro e, tolti i trecento di affitto, riuscivamo a vivere bene, mantenendo una figlia di dodici e una di sei anni. Ma ora niente. Da novembre in casa nostra non entra una lira. E tutto si sta rompendo, non c’è più tranquillità. Con mio marito, con mia figlia grande che non capisce cosa sta accadendo e non vuole sentirsi diversa dalle sue amiche. Gli unici soldi che entrano sono quelli che guadagno arrangiandomi a fare le pulizie. Cento euro ogni due settimane.
Come si fa a vivere con duecento euro al mese?
Ci arrangiamo. Io faccio tutto in casa. Con cinquanta centesimi di farina faccio tre chili di pane. La salsa per la pasta la faccio io, macinando i pomodori. Cerco di andare il meno possibile al supermercato. Naturalmente abbiamo rinunciato ad uscire la sera, e quando vado al mercato vado solo per guardare…
Nonostante tutto però passi molto tempo al sindacato.
Già, mi fa pensare di meno a quello che mi aspetta a casa. Poi mi piace imparare, soprattutto quello che riguarda il lavoro, per evitare di essere presa in giro. Così mi metto a disposizione di chi come me viene dallo stesso settore e mi chiede una mano.
Cosa ti aspetti, cosa vorresti che accadesse?
Sono sicura di non essere l’unica in queste condizioni, ce ne sono tanti come me e tante famiglie che sono costrette ad indebitarsi per pagare le bollette, l’affitto. Non è possibile che non si faccia niente, che non si lotti per uscire dalla situazione. Non c’è bisogno dell’elemosina, non ne voglio. Due settimane fa sono andata dal sindaco per parlargli della mia situazione. Non volevo un aiuto economico, ma che partecipasse con noi alla nostra lotta, che prendesse a cuore la situazione di tutti quelli come me. Ma forse non ha capito: ha promesso di trovarmi lavoro…
il Comune di Pandora
La notizia arriva in una domenica mattina nevosa. Petrucci, Tommasino e Conserva “u lueng”, ex sindaco di Martina, sono stati indagati dalla Procura di Potenza per vari reati “non necessariamente correlati tra loro”, peculato, corruzione. In particolare, l’articolo di Diliberto di ieri su Repubblica metteva in luce una cosa già nota ai più attenti: il lavoro di certosino smistamento delle denunce che arrivavano sui tavoli della Procura. Di questo se ne aveva già sentore quando ci si interrogava sul motivo per cui alcune istanze andassero avanti e altre no. In particolare come mai con tutto quello che accade al comune di Martina, tra tangenti et similia, nessuno sia mai intervenuto. Noi che in questo paese ci abitiamo, subiamo ogni volta i ricatti da parte di quella comitiva di pagliacci che occupa i nodi cardini dell’amministrazione burocratica martinese. Se vogliamo aprire un negozio, fare un concerto, chiedere una carta, un documento qualsiasi, diventa sempre un’impresa, un’avventura. Le normali funzioni dell’amministrazione, o meglio, della burocrazia che non dovrebbe avere nessun tipo di colore nè di appartenenza, diventano privilegi, favori, a cui poi, naturalmente bisogna corrispondere. Non esiste un regolamento che tenga, le cose si fanno o no, solo se convengono alla cricca di pagliacci che tiene in piedi la barracca. Con questo modo di fare, si legano gli uni agli altri in doppi fili di ricattabilità, di malafede. L’inchiesta della Procura di Potenza va a colpire uno dei tanti aspetti del cancro locale, uno dei sintomi più evidenti, ma non l’unico. Quello che accadrà è già scritto, è già visto: chi è stato colpito accetterà di buon grado che intorno a lui si faccia terra bruciata, che gli amici si nascondano o spariscono, temporaneamente, giusto il tempo di far calmare le acque. Poi tutto tornerà come prima. Perchè quello che è stato colpito è solo il livello politico, quello con una faccia e un nome, quello che, nel bene o nel male, ci mette la faccia. In questo modo è sempre quello più esposto, quello immediatamente riconoscibile nel bene o nel male. Ed infatti è sempre quello che ne paga le spese. Come in questo caso.
Ma se si cerca una prospettiva che esuli un attimo dalla rabbia, è palese che a Martina tutto c’è fuorchè un livello politico. Partendo da sinistra ed arrivando a destra è tutto un correre verso il centro, come se l’arena politica fosse una coppa di insalata. Ma il centro non corrisponde necessariamente ad idee democristriane, ma alla confusione pura, una corsa all’omologazione che ha come leit motiv il qualunquistico pensiero che la gente vota chi è più uguale. In base a questa legge idiota, tutti cercano posto dalle parti del centro, per essere più mimetizzati e, all’occorrenza, utilizzabili. Se si analizza la questione da un punto di vista politico. A Martina concorrono altri fattori invece. Primaditutto è utile dire che la scelta elettorale non è legata, nella maggior parte dei casi, a scelte politiche ma a forzature, a ricatti spesso occupazionali. Perchè tutti hanno un figlio da sistemare, un nipote da sposare, una rimessa da ristrutturare, tutti hanno motivo per essere ricattati, utilizzabili, ognuno è un voto e ogni dieci voti è mezzo favore.
Per questo è necessario che il livello politico sia debole, incopentente, possibilmente ricattabile tanto o di più dei singoli cittadini. I consiglieri candidati sono spesso persone costrette a mettersi in lista, e ogni posto in lista ha un prezzo. Naturalmente il loro potere reale, una volta eletti, sarà nullo, perchè avranno da ringraziare altri, da ricambiare altri favori. Quello che è importante, a Martina, è la continuità del potere. I candidati consiglieri, se si va a vedere la loro attività prima di mettersi in politica, hanno sempre il bisogno di un permesso, di un’autorizzazione, di una carta. Tutti possono, o devono, essere bravi ai diktat che arrivano dall’ufficio in fondo. Ed è l’ufficio in fondo il problema, quello che non viene toccato dalla indagini, quello che non deve essere eletto, quello che non deve mettere la propria faccia.
In un sistema che si regge sui favori, sui privilegi, sulla trasformazione della normale amministrazione in qualcosa di particolare, fatto ad personam, gli aggettivi si sprecherebbero e le analisi direbbero che il Palazzo Ducale è sede di una cupola mafiosa, per gli atteggiamenti e i modi di fare. Certo non si spara, non si uccide, ma le richieste dei cittadini che scelgono di non sottostare al Feudatario dell’ufficio in fondo vengono sciolte nell’acido del dimenticatoio, dei cavilli legislativi a cui non si può chiudere nessun occhio.
L’inchiesta della Procura di Potenza potrebbe essere l’inizio di un cambiamento, se sfruttata bene da quella parte di società trasversale, stufa di essere marionetta o burattino, stufa di feudi e di favori, di cortesie criminali di consorterie manco tanto occulte. Ma non accadrà. Gli organi di informazione non ne parleranno, perchè gli inserzionisti non pagherebbero la pubblicità, perchè non cambierebbe niente. Chi chiederà di andare a fondo sarà zittito, isolato, messo da parte. I cittadini faranno finta di dimenticare, ma perderanno ancora una volta la fiducia nel sistema e non pochi di loro spereranno in un lider forte che tutto risolva. Quelli dell’ufficio in fondo faranno i buoni per un po’, per poi iniziare di nuovo a dividersi la città.
Questo è il comune di Pandora, chi avrà la curiosità di aprire il vaso?
Dal Jazz non si torna indietro
Intervista a Pasquale Mega e Camillo Pace alla ricerca del significato della musica (jazz)
pubblicata su Extramagazine n. 6 del 13/02/2009
Per essere un lunedì mattina freddo e piovigginoso di febbraio, l’atmosfera sembrava più adatta al blues che al jazz. Pasquale Mega e Camillo Pace li incontriamo per parlare di musica, di “Coloriade”, dell’album che Pasquale ha scritto e che è stato pubblicato nell’estate del 2007 dall’etichetta Dodicilune di Lecce. La conversazione ha preso fin dall’inizio una piega incontrollabile, dato che il leit-motiv è stata la ricerca di una definizione appropriata del concetto di jazz. Tra una domanda e il caffè e la risposta e la foto e un’altra domanda, a qualcuno veniva in mente l’intuizione, il lampo di genio, la metafora migliore per spiegare cosa fosse quel tipo di musica che suona così, jazz.
Perché Coloriade?
Mega – Così, è stata una cosa improvvisa, un’intuizione di un attimo. Non significa nulla, non esiste in nessuna lingua al mondo, ma riesce bene a dare un’idea dell’album. I brani sono stati composti in un lungo arco di tempo, non è stata un’idea unica. Il punto centrale è la presenza degli archi, non consueti nelle formazioni jazz.
Pace – Pasquale è stato il primo in Puglia ad usarli. È stata un’intuizione che adesso viene spesso utilizzata da altri musicisti jazz pugliesi. Gli archi di solito sono usati nella musica classica e infatti Coloriade presenta degli incastri che rimandano molto alla musica classica.
Due generi apparentemente opposti, la classica rigidamente inquadrata in partiture e il jazz che offre tantissimo spazio alla libertà espressiva del musicista.
Pace – Invece non è per nulla così. La gente pensa che il jazz sia libertà assoluta, che sullo strumento si può fare quello che si vuole. Non è così, non è solo così. E poi anche nella classica si improvvisa: Bach, Mozart, Liszt e tanti altri improvvisavano.
Mega – Io per esempio non ascolto più jazz, ma quasi esclusivamente classica. Questi due generi hanno molto in comune, più di quanto si pensi. Sia uno che l’altro vengono insegnati al conservatorio, e molti giovani si avvicinano al jazz proprio nelle scuole di formazione classiche. Ora tutti i giovani jazzisti hanno un diploma e una preparazione tecnica molto buona. E in Puglia ce ne sono molti…
Pace – La Puglia sembra la culla del jazz…
Mega – Non solo, anche la Campania, la Basilicata…
Il meridione insomma. Vero è che l’arte migliore è figlia della crisi. Dove si ascolta buona musica in Puglia?
Ci sono alcuni locali, come il Ueffilo di Gioia del Colle o lo Zelig di Foggia…
E dove vi piacerebbe suonare?
Pace – In un teatro, sicuramente…
Mega – In un teatro, Coloriade dovrebbe essere rappresentato in teatro.
Se si pensa al jazz vengono in mente altre situazioni, locali fumosi, affollati, il teatro fa venire in mente altro, qualcosa di già scritto, provato, inquadrato…
Mega – Il jazz ha una storia secolare, nasce in una determinata parte del mondo e poi si diffonde, ma non rimane uguale a se stesso. L’errore è immaginare il jazz sempre uguale a se stesso, con quei suoni, quelli strumenti. Le sonorità dell’America anni trenta possiamo rifarle anche oggi, ma non avrebbe senso. In Europa si suona in maniera diversa, e in Italia si suona in maniera ancora diversa. Fino ad arrivare in Puglia, dove nelle composizioni dei musicisti si sente la mediterraneità. Ognuno ci mette del suo, fino a produrre qualcosa di originale, andare fuori dai canoni. Il jazzista deve avere la capacità di produrre progetti originali e la conoscenza di cosa è la percezione.
Pace – Il jazz è un modo di esprimersi: hai la possibilità di mettere tanto di te, di fare tuo quello che suoi, renderlo personale. Letto il tema del pezzo si può improvvisare. Su uno stesso tema il mio assolo sarà diverso da quello di un altro e diverso da uno mio stesso fatto prima o che farò dopo. È esprimere nel momento quello che si prova. Anche in studio si improvvisa e anche in quel momento deve esprimere quello che provi: immagina in studio chiuso con la cuffia…
Bruno Tommaso (contrabbassista e compositore, primo presidente dell’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz, ndr) scrive sulla copertina di Coloriade: “Alle sue spalle vi è un cammino di civiltà, di sete di sapere, di potente voglia di sgombrare il campo dai soliti luoghi comuni che vogliono un mezzogiorno immobile e chiuso”. Il ritratto di un filosofo più che di un musicista…
Mega – Sapere che Bruno Tommaso dica queste cose di me, non può che rendermi felice. È la storia della musica moderna in Italia. Ma la cosa che più mi gratifica e che mi abbia dato del gentiluomo.
Parliamo di Antiphonae, una bellissima rassegna di jazz, sia concertistica che cinematografica, nata a Martina Franca e poi costretta, per la mancanza di appoggio da parte delle istituzioni, a spostarsi a Locorotondo. È Martina Franca il luogo comune di cui parla Tommaso?
Mega – Quanti anni sono passati dalla prima volta? Dieci forse…
Pace – Immagina che quando ci fu la prima edizione di Antiphonae io ancora non sapevo suonare.
Mega – Forse siamo solo in un brutto periodo…
Pace – Ci vorrebbe più dialogo con le istituzioni.
Mega – Posso dire che Antiphonae ha portato il jazz a Martina. Ma non è detto che a Martina prima o poi non torni. Il problema è che per fare cultura ci vogliono i soldi…
Pace – Forse se non si spendessero per le solite cose. Ma non dipende solo dal comune. Non ci sono locali adatti, e mancano i direttori artistici dei locali. Prendi questo posto (37 Music ArtCafè, ndr) che ha un buon direttore artistico e fa delle buone cose. Ci vorrebbe una cosa simile per il jazz.
Argomento su cui preferite non sbottonarvi, comprendo. Torniamo alla musica. Coloriade: che progetto all’interno dell’album?
Mega –Gli album si fanno per mettere un punto fermo alla propria storia creativa, affinchè diventino biglietti da visita. Grazie a Coloriade siamo andati a suonare all’Arezzo Jazz Winter e al Montemarciano Jazz. I brani rappresentano momenti diversi della mia carriera, non sono concatenati, non c’è un progetto unico per l’album, è molto eterogeneo.
Pace – Sembra che siano stanze con porte che si aprono con altre porte. I pezzi sono molto orecchiabili, non hanno qualche particolare difficoltà tecnica. Ma il progetto che ne è venuto fuori è eccezionale. Ricordo ancora il momento delle registrazioni: sentire Marco Tamburini (trombettista, colonna portante della musica di Jovanotti, ndr) in cuffia, dal vivo, e pensare che fino a poco tempo fa lo ascoltavi in Piazza Crispi, con la cassetta nello stereo della macchina e ora suona con te è un’esperienza fantastica.
Mega – Devo riconoscere che suonare con Javier Girotto e Marco Tamburini è stato un onore per me…
Cosa prevede il futuro?
Mega – Per ora sto suonando con un chitarrista di Matera (“dì che sono di Matera, ci tengo molto”) Dino Plasmati, in un gruppo chiamato Jazz Collective, dove siamo tutti materani. Poi sto suonando insieme alla LJP, la Lucanian Jazz Project Big Band, un progetto nato per ospitare grossi nomi: abbiamo fatto due concerti con Michael Rosen. Anche in questa formazione siamo quasi tutti materani, con un martinese: Claudio Chiarelli.
Pace – Io invece ho appena finito di suonare in tre dischi, sto scrivendo il mio secondo (il primo è stato” Introspezione di un viaggio”, ndr) e sto collaborando con diversi musicisti. In cantiere c’è il progetto di un omaggio a Bob Marley con Connie Valentini, un musicista martinese, e poi un disco con il pianista di Alex Britti e di Meg.
Mega – Ormai Camillo è uno dei contrabbassisti più richiesti del meridione…
Pace – E Pasquale è il mio padre musicale…
Ma cos’è il jazz alla fine?
Pace – Il jazz è l’idea all’interno di un’idea.
Mega – Bella definizione, mi piace. Il jazz è in primo luogo l’originalità del progetto. Io l’ho incontrato per caso: un giorno sentii il Köln Concert di Keith Jarrett. Ascoltavo molta musica classica in quel periodo e pensavo che il disco fosse un’opera per pianoforte. Quando scoprii che era tutta improvvisazione rimasi folgorato. Lì ho scoperto il jazz e quando lo incontri davvero non si torna indietro.
Caro Babbo Natale…
La letterina a Babbo Natale
Caro Babbo Natale,
mi chiamo Massimiliano e sono un giovane abitante di Martina Franca. Volevo dirti che quest’anno non sono sempre stato buono, qualche volta mi sono incazzato, e qualche volta mi sono comportato male, ma ho sempre cercato di essere bravo e buono. Quest’anno, caro Babbo Natale, ho pagato tutte le tasse, alcune aumentate del 50 percento, come quella sulla spazzatura, ma non perché ho ingrandito la mia casa, ma perché il Comune si è beccato una bella multa e dobbiamo pagarla tutti. I maligni dicono che è colpa degli amministratori che, nonostante le sentenze dei giudici e le leggi della Regione, non fanno una nuova gara d’appalto per lo smaltimento. Io credo che lo facciano perché hanno a cuore le sorti dei dipendenti della Tradeco.
Caro Babbo Natale, quest’anno qualche volta mi sono lasciato andare a brevi turpiloqui. Quando ero nel traffico soprattutto, perché mi scocciavo di metterci mezz’ora da Cristo Re all’Ospedale. Immagino che scorazzando tra le stelle con le tue renne non hai problemi di doppie file che intralciano il passaggio, di cerebrolesi che ti guardano sorridendo sorseggiando caffè mentre la loro macchina blocca la tua, di soste espressioniste al centro strada, di signore troppo impellicciate per capire che lo spazio vuoto tra due auto è un parcheggio dove poter lasciare il loro ingombrante inutile Suv. Mi sto innervosendo, ma mentre ti scrivo, caro Babbo Natale, rivivo le scene che accadono quotidiane.
È stato un anno allegro, quasi, tranne che per due miei amici che si sono sposati e non riescono a trovar casa, che ci vorrebbero un po’ di mutui subprime anche qui da noi. Lo sai che una casa arriva a costare 3600 euro al metro? Sono sicuro che da voi in Lapponia non è così. Questo fatto mi ha intristito e se mi intristisco mi arrabbio un po’, e me la prendo con gli amministratori che, poveretti, sono troppo impegnati per pensare al piano regolatore.
È stato un anno molto intenso. Al giornale ci sono stati nuovi acquisti e tutti abbiamo un po’ acquisito esperienza. Ma la vita del cronista, sia esso di cronaca o di sport, di inchiesta o di politica, non è mai semplice e spesso, a causa dell’abitudine a leggere i fidi scribi, sembra che il lavoro fatto non valga nulla. Ma noi non ci arrendiamo e anzi ti chiedo che questo Natale mi porti un po’ di pazienza e di cortesia nei confronti di chi è re in paese ma già all’altezza di San Paolo conta come il due di briscola.
Vorrei la capacità di raccontare a tutti, senza la paura di non essere capito.
Sotto l’albero la mattina del 25 spero di trovare splendente lo spirito cristiano dell’accoglienza, che gli abiti talari non indichino solo arringhe vigorose ai fedeli intruppati ma scarpe sporche di fango e mani che abbiano toccato la povertà.
Vorrei aprire un pacco e trovare il modo perché la gente non veda nei ragazzi dell’Hotel dell’Erba dei concorrenti nella miseria ma dei fratelli vittime anche loro degli stessi meccanismi che divide il mondo in sfruttati e sfruttatori.
Anche se non sono stato un esempio di bontà, ti chiedo, Babbo Natale, di portarmi un paio di forbici magiche per tagliare i fili tra i vertici delle piramidi di potere che impoveriscono le nostre terre e le nostre menti e le persone normali, laboriose, oneste, costrette ogni giorno ad inchinarsi perché ci fanno credere che i nostri diritti non sono nient’altro che privilegi.
Portami una gara d’appalto per i rifiuti, affinchè anche a Martina si possa fare un po’ di raccolta differenziata. Regalami un’idea per spiegare agli imprenditori della zona industriale che non possono usare i cassonetti normali per gettare i rifiuti delle loro imprese, perché altrimenti a pagare siamo noi cittadini. Regalami un po’ di buon senso da mettere sotto il tergicristallo delle macchine parcheggiate in doppia fila. Regalami un vigile personale che multi chi non sa guidare.
Babbo Natale, se c’è spazio nel tuo sacco ti chiedo un chilo di saggezza, da donare ai nostri amministratori, affinchè capiscano che governare non significa emettere ordinanze contro chi sputa o emette flatulenze, ma timonare una nave che non deve affondare.
Vorrei un po’ d’ordine, per favore, nel nostro Ufficio Tecnico, perché mi dispiace che spesso si perdano le carte.
Vorrei un po’ di sicurezza, se è possibile, vorrei poter sognare una prospettiva e un futuro e non ringraziare di essere arrivato alla fine del mese.
Per ultimo, caro Babbo Natale, ti chiedo di trovarmi quella scatola di giocattoli che quand’ero bambino mio padre mi comprò dal negozio sotto casa, quella dove c’erano le casette in plastica colorate, da assemblare. Quella scatola che stava in vetrina in quel negozio di giocattoli che ora non c’è più.
Problema casa: una soluzione sarebbe cercare a Crispiano
Una (non troppo) fantasiosa ricostruzione del perché a Martina è impossibile trovar casa.
L’otto dicembre scorso il noto blog Liberamartina, riportava per primo la storia del signor Cosimo P. disoccupato e sfrattato, costretto a dormire nella villa comunale. Senza lavoro e senza soldi quindi, impossibilitato a pagare l’affitto, per alcune notti si è adattato a dormire su una panchina della villa.
Nonostante questa possa sembrare l’ennesima storia di povertà, l’ennesimo caso umano su cui versare un po’ di lacrime, una situazione del genere ci offre lo spunto per una riflessione sul tema case.
Secondo le statistiche dell’Istat, i nuclei famigliari sono circa diciottomila e il totale delle abitazioni risulta quasi il doppio, circa trentamila. Il dato quindi ci dice che le case sono più delle famiglie, anzi che c’è una casa ogni due persone. L’offerta quindi supera la domanda. Secondo le leggi di mercato in una situazione del genere i prezzi dovrebbero calare, permettendo a tutti di acquistare. Invece non è così, i prezzi al metro quadro a Martina sono tra i più alti in provincia e sono un reale ostacolo all’acquisto. Questo perché gli imprenditori edili sembra abbiano fatto cartello e, in barba alla libera concorrenza, fanno il bello e il cattivo tempo. A questo si aggiunge un piano regolatore che ha esaurito da un bel pezzo le sue funzioni, avendo la veneranda età di venticinque anni. Le zone edificabili sono state edificate e si costruisce solo in deroga al piano stesso. Un nuovo Piano Urbanistico permetterebbe sia di costruire, sia di abbassare i prezzi, indicando un livello massimo di canoni d’affitto e un tetto al rapporto prezzo/metratura. Da questo punto di vista, il Consiglio Comunale, non solo quello tutt’ora in carica, ha fatto sempre orecchie da mercante, facendo dubitare i più maligni di commistioni tra la classe politica dirigente e i (pochi) imprenditori che riescono ancora ad avere licenze edilizie.
Sebbene sia difficile vendere (in realtà è difficile acquistare), il mattone a Martina è un’attività redditizia, altrimenti non si spiegherebbero i vari escamotage per scavare fondamenta e far crescere condomini. L’episodio dell’articolo 51 è emblematico: durante la crisi politica a ridosso del 2000, il Comune fu retto dal commissario prefettizio Sessa che, andando ben oltre i suoi compiti, autorizzò una maxivariante al piano regolatore che prevedeva la costruzione di ben 430 appartamenti sparsi a macchia di leopardo su tutto il territorio comunale, in particolare dalle parti del Pergolo e di via Massafra. Ma la procura intervenne a bloccare tutti i procedimenti: non solo non era nei compiti del commissario approvare una cosa del genere, ma l’elezione del sindaco ci sarebbe stata di lì a pochissimi giorni, se c’era davvero necessità, sarebbe bastato aspettare. Inoltre anche l’uso dell’art. 51 della legge sull’edilizia è stato improprio: la legge prevede che, in caso di necessità, ci può essere una deroga al piano regolatore per interventi di carattere pubblico, mentre l’iniziativa di Sessa e compari era indirizzata verso i privati. L’affare colossale è stato bloccato, e la procura ha iniziato un’inchiesta coinvolgendo otto persone tra imprenditori e funzionari comunali, compreso Sessa. Una storia che è addirittura approdata in Parlamento.
Questo accade tra il 2002 e il 2003.
Nel frattempo nessuno si è mosso per quanto riguarda il Pug, a parte qualche dichiarazione estemporanea. Il problema dell’accesso alla casa però rimane alto, tanto che lo Iacp, l’Istituto per le case popolari, presenta un progetto per la costruzione di una ventina di appartamenti finanziati dalla Regione. Quasi due milioni di euro per dare una boccata di ossigeno alle tante famiglie che non possono permettersi le cifre esose dei proprietari di casa. Tutto però si risolve in una bolla si sapone. Il progetto, presentato al comune, si perde tra le varie carte dell’Ufficio Tecnico, nonostante le promesse che il sindaco Palazzo ha fatto ai funzionari dello Iacp. Il tempo passa e la Regione decide di intervenire, dirottando i fondi per le nuove case popolari verso Manduria.
Questa disattenzione dei funzionari comunali e dei politici amministratori potrebbe costare cara alla città, perché nonostante le lunghe liste di famiglie in attesa di alloggio, l’occasione propizia si è persa. Sennonché spunta fuori dal cilindro la cosiddetta Legge 12, varata dalla Regione la scorsa estate, che prevede la possibilità di andare in deroga al piano regolatore e rendere edilizie alcune aree, in particolare le zone E, le aree dove sarebbero previste solo villette, per intenderci. La legge 12 si riferisce ai comuni con elevata tensione abitativa e prevede che i proprietari delle aree suddette possano costruire in deroga al piano regolatore, sia rispetto alle dimensioni sia rispetto all’indice di abitabilità.
L’unico obbligo è che siano rispettate le norme e i massimi d’affitto previsti dalla legge, trattandosi di edilizia economica convenzionata. Un privato, cioè, fa le veci del pubblico e ne rispetta i termini. Solo che invece di pagare l’affitto allo Stato, lo si paga al costruttore. La ghiottoneria della legge però sta nell’obbligare chi costruisce a donare il dieci per cento degli appartamenti al Comune, come se fosse una sorte di rimborso spese. Il Comune quindi avrebbe da assegnare alcuni alloggi alle famiglie che aspettano da tempo.
Se fossimo in una realtà degradata, tipo Palermo degli anni ottanta o novanta, e non in un paese civilissimo come Martina Franca, si potrebbe pensare che la “dimenticanza” del progetto dello Iacp sia stata voluta perché sono ancora in ballo i 430 appartamenti dell’articolo 51. Questo fatto potrebbe addirittura arrivare a bloccare la stesura di un nuovo piano regolatore, perché chi avrebbe dovuto costruire perde un investimento milionario, dato che tutti avrebbero la possibilità di edificare. Nel frattempo che si risolva l’inchiesta, piove dal cielo la legge 12, voluta dalla Barbanente per risolvere problemi reali, ma che a Martina (se non fosse la civilissima di cui siamo certi) risolverebbe i problemi di alcuni costruttori. Per verificarlo basta andare dalle parti di via Massafra e verificare se i terreni sono in vendita o sono già stati venduti e a che prezzo. Oltretutto, se non fossimo nella civilissima Martina, si potrebbe arrivare a pensare che gli appartamenti non solo sono un investimento sicuro ma possono anche servire in caso di elezioni come scambio o favore. Se su cento appartamenti, dieci sono del Comune, le famiglie a cui toccherà la fortuna di usufruirne saranno eternamente grati all’assessore che le ha scelte.
Questa lettura naturalmente va ben oltre i fatti, sono supposizioni fantasiose. Se il nuovo piano regolatore sta assumendo ormai le stesse caratteristiche del Messia per il popolo ebraico, che campa sperando di vederlo, è per necessità contingenti, importanti. Siamo sicuri che un Consiglio Comunale con un’alta percentuale di geometri e ingegneri e fratelli di geometri e cugini di ingegneri non avrebbe difficoltà a stilarlo. Se non lo fa è perché ci sono motivi gravissimi che noi cittadini non possiamo nemmeno immaginare. Per questo, caro signor Cosimo P. che cerchi casa, ti consigliamo di considerare Crispiano come valida alternativa.
Conversazione su Martina Franca con Mario Desiati: il dialetto, la provincia, le convenzioni e i film porno al Bellini
Intervista esclusiva con Mario Desiati (pubblicata su Extramagazine il 12/12/2008)
Si dice che non si ha una visione pertinente delle cose se non si è ad una distanza giusta. Non bisogna essere né troppo vicini né troppo lontani. È una regola che vale per qualsiasi cosa: la giusta distanza. Se si dovesse parlare di un luogo, una città, una realtà, l’opinione di un suo abitante non è oggettiva, perché è troppo vicino, com’è troppo lontano lo sguardo di un estraneo. La giusta distanza sarebbe un suo abitante che non abita più. Mario Desiati incarna perfettamente la giusta distanza per parlare un po’ di Martina Franca, che è anche la protagonista del suo ultimo libro.
La prima cosa che si nota scorrendo le pagine de “Il paese delle spose infelici” è il massiccio uso del dialetto.
Il dialetto del romanzo è un dialetto reinventato, molto più addolcito rispetto a quello della realtà, un dialetto simile a quello che parlavano i ragazzi martinesi degli anni Novanta. Ho aggiunto qualche vocale per renderlo più comprensibile a lettori e traduttori. Ma è così, spietato, duro, con un suo lato oscuro.
Cosa intendi per “lato oscuro”?
È come se questo dialetto, con le sue consonanti talmente chiuse, rifletta una parte del carattere chiuso dei martinesi.
Un carattere che è entrato nelle narrazioni popolari facendo paragonare i martinesi alla pietra con cui sono costruite le loro case. È possibile secondo te che una città possa avere un suo animo, tanto da influenzare le persone che vi abitano? Oppure, mettiamola in un modo più misterico, è possibile che ci sia una “maledizione” che grava su Martina e i martinesi?
È un’ipotesi suggestiva, ma Martina ha gli artigli come la Praga di Kafka, ti tiene stretto, se vai via ti graffia: quando vai via ti restano i segni addosso, nella testa, nel cuore e sul corpo. Sono ferite che fanno male soprattutto quando si torna, quando ci si rende conto dei cambiamenti, di cui chi ci sta dentro non ne percepisce la profondità.
E probabilmente non lo percepisce affatto. I protagonisti del libro, Veleno e Zazà (i protagonisti del romanzo, ndr ), cercano un riscatto. Un riscatto che è la felicità minuta, che consiste nel giocare in un campo d’erba, nell’odore di prato come quello del Tursi o dello Jacovone che verrà sentito una sola volta e ricordato per sempre.
Sembrerebbe poco…
Loro non sono ancora corrotti dal mondo circostante che gli obbliga a cercare altri tipi di felicità. Veleno e Zazà sognano nel calcio uno sfogo nel male di provincia, dove la vita sembra obbligarti a un certo percorso e simbolicamente uno di questi traguardi è il matrimonio. Percepire la diversità dal contesto senza che questa sia tollerata è allora un momento di squilibrio e infelicità. Il sudore e la rabbia che si mettono in campo prima e nel tifo dopo, è l’apparente via d’uscita del duo.
Una provincia che ti obbliga a seguire un determinato percorso: o accetti le convenzioni o quella è la porta.
C’è provincia e provincia: c’è anche una provincia a Roma e Milano che sono le uniche metropoli italiane, un luogo dove ci si conosce tutti e si seguono le stesse convenzioni d’un paese.
Se scendiamo invece nel caso che ci riguarda, è vero le convenzioni esistono, ma tutto sta a esserne coscienti e proprio il villaggio globale a volte bombarda con il consumismo che corrompe i valori sani della provincia, ossia lentezza, sguardo, solidarietà.
Nel libro traspare una sorta di “horror vacui”, che è un elemento comune ad alcuni scrittori meridionali, tipo Bodini. Una paura del vuoto che distorce la percezione, quasi. A cosa è dovuta secondo te?
Credo che nella periferia, nella provincia, si avverta di più questo horror vacui che forse è semplicemente un dare senso e corpo alla solitudine. Non è un orrore esistenziale la solitudine della provincia secondo me, ma una condizione, la soluzione è autenticità, vivere essendo se stessi, senza rinunce alla propria personalità.
Passiamo ad un argomento più leggero. Parliamo del Bellini: un luogo storico della città, come anche tu sostieni nel tuo libro, che è stato abbattuto per fare appartamenti. Le voci di dissenso sono state
pochissime e nulli i risultati.
Il cinema Bellini, pur non essendo un vero monumento, è stato un feticcio della mia generazione. Il cinema proibito, metafora di una zona rossa, luogo impenetrabile. Gli anni delle locandine oscene con la gente che aspettava davanti al Bar Ducale il momento dell’arrivo del nuovo film, restano uno dei momenti più comici della presunta Martina bene degli anni Ottanta. Tutti si ritrovavano davanti al Bellini per sbaglio come quando tutti guardavano il film osè su AT6 per sbaglio, salvo poi essere dettagliati nella descrizione delle scene. Insomma essere bambini a Martina è stato molto bello e divertente anche per quel fantastico “equivoco” che era un cinema porno nel centro pulsante della città.