Papa Francesco, Due

Com’era prevedibile dopo l’elezione del Papa, immediatamente gli schieramenti si sono serrati. Da una parte la felicità scaturita da un paio di parole scontate lanciate da un balcone e dall’altra una corsa a scartabellare le pieghe della storia a cercare foto con dittatori e scheletri vari. Domani leggeremo articoli su quanto questo Conclave sia stato mediatizzato (una telecamera sullo stesso balcone!). E nessuno che pensa invece al fatto che in America mettono i microchip nelle persone.

I ragazzi dell’82

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Oggi è il mio compleanno e passo dai venti ai trenta così, in un soffio. Sembra ieri quando giocavamo a pallone nella piazzetta o durante le serate moleste rischiavamo di spaccare i locali, i giorni con la “guerra in testa“, o i tempi dell’università. In un vortice di ottusa nostalgia non si può non scrivere nulla, soprattutto se scrivere è diventato una specie di mestiere.

E proprio per questo mi faccio questo regalo, oggi, che dico addio ai venti ed entro con tutti e due i piedi nei trenta e lo dedico a tutti quelli che come me sono nati nell’82, l’anno in cui la Nazionale ha vinto i Mondiali, noi che siamo diventati maggiorenni l’anno della morte del Secondo Millennio, scrivo un pezzo su di me, e un po’ su di voi che leggete.

Ho sempre pensato di appartenere ad una generazione di avanguardia, o una generazione – laboratorio, per dirla tutta. Quando arrivammo ad iscriverci alle elementari istituirono i “tre maestri”, alle media avevamo i voti A B C D E, alle superiori gli esami del 60 su 60 fu definitivamente sostituito da quello della terza prova. All’università era stata introdotta obbligatoriamente la riforma del 3+2.

Ora che dobbiamo giocare a fare i grandi, non esiste più un sistema capace di accoglierci, c’è la crisi e forse dobbiamo pure chiedere scusa all’Europa se siamo nati.

Insomma, ogni cosa che ci apprestavamo a fare non aveva la possibilità di essere paragonata a quella fatta dai nostri fratelli maggiori (per chi ce l’ha). Dovevamo fare tutto da soli, sperimentare, avanzare con in mano nemmeno un machete nella giungla della vita.

Ora siamo qui, a trent’anni, nel mezzo del cammino, senza la possibilità di guardarci indietro, in un mondo che si sgretola ogni giorno che passa, senza punti di riferimento, senza regole, forse senza prospettive, non troppo pronti a diventare adulti, e un poco stanchi di essere considerati giovani, nuotando a pelo d’acqua, scansando le rocce.

Cosa ci rimane?

Ci rimane Bim Bum Bam e Uan (sì, perchè pensare che quel coso rosa si scrivesse One, proprio non mi andava giù), ci rimane Holly e Benji, ci rimangono le serie televisive tipo Hazzard le mattine d’estate e i Cavalieri dello Zodiaco la prima serie che è quella più bella. Ci rimane la stagione con gli scooter, e tutte le mode che non siamo riusciti a seguire, ma che comunque ci hanno segnato e noi non lo sappiamo.

Così, in questa stagione di cambiamenti, in cui saluto con affetto questa esperienza e inizio con tutto l’impegno e la passione possibile quest’altra, volevo lasciare questo post qui, in questo blog che ho sempre maltrattato, ma che spesso mi dato rifugio.

Tanti auguri a me, che volevo fare l’inventore, e quindi l’esploratore, poi l’antropologo e infine il giornalista, e invece mi trovo a camminare in bilico tra due ere diverse, schifato dal passato, spaventato dal futuro, ma sempre, fottutamente, con lo sguardo verso il cielo e i piedi sporchi di fango.

La voce del mattone

Questo articolo è stato pubblicato lunedì 9 gennaio su Siderlandia, nella rubrica Officina Narrativa

Accade che a Martina Franca la Procura metta sotto sequestro un area boschiva e un cantiere edilizio in cui stavano per essere costruiti 44 appartamenti, tredicimila metri cubi di cemento colato in una pineta in cui esiste un’antica neviera. L’accusa dice che l’ex dirigente dello sportello unico per l’edilizia avesse dichiarato che l’intervento era solo per ristrutturare costruzioni già esistenti (mentre nella pineta c’erano solo pini e pigne) e che quella era un’area in cui si poteva comunque costruire, in barba al Piano Particolareggiato, scaduto nel 2000.

La solita storia, penserà il lettore: l’imprenditore che unge le ruote amministrative e il dirigente corrotto che, pur di permettersi il Suv, accetta di favorire questo o quello. Ma a questo bisogna aggiungere che l’imprenditore, forse il più noto di Martina Franca o, almeno, quello che da dieci anni condiziona l’economia locale, ha chiamato a raccolta il suo ufficio stampa e ha deciso che la miglior difesa è l’attacco, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, anche quelli sociali.

Premettiamo che le indagini sono ancora in corso e sappiamo benissimo che il risultato può essere qualunque. Ma a noi preme evidenziare la strategia messa in atto dal noto imprenditore per difendersi, almeno pubblicamente.

Il signor G, chiamiamolo così, occupa nell’immaginario locale uno spazio predominante: viene considerato “temuto” o “invidiato”; sicuramente tutti, ma proprio tutti i cittadini sanno cosa fa e quali sono o sono state le sue frequentazioni. Si era sempre tenuto alla larga dalle dispute di paese, almeno non era mai intervenuto mettendo la sua faccia. Questa volta è però cambiato qualcosa. Innanzitutto dopo il sequestro le due più note testate locali si schierano al suo fianco (e questo non ci deve sorprendere); poi invia una lettera in cui si scaglia contro le associazioni ambientaliste, colpevoli, secondo le sue parole, di prendersela con lui a prescindere, manovrati da qualcuno che ha altri interessi. La politica, infine – colpo di genio della lettera pubblicata ovviamente per intero – è la causa di tutti i mali nella cittadina della Valle d’Itria.

Altro giro, altra corsa. Sui social network i rappresentanti della associazioni fanno notare che non c’è nessun disegno politico e, soprattutto, non hanno i mezzi per condizionare le scelte della magistratura. Facebook è uno strumento potentissimo e chi sa utilizzarlo può determinare anche il cambiamento di umore di una comunità. Esistono però delle regole precise. In primo luogo la fiducia, che ognuno sia quello che dice di essere e che si metta in gioco in prima persona. Su Facebook Obama ha gli stessi mezzi dell’ultimo bambino che costruisce giocattoli nelle fabbriche cinesi. A differenza di una testata in cui la redazione sceglie cosa pubblicare o no, sul social network tutti possono commentare e tutti possono pubblicare. Non ci sono limiti, non ci sono privilegi, non ci sono differenze di censo, casta o classe.

Il sig. G. decide di intervenire nella discussione, utilizzando un account di un amico che scrive una lettera minatoria nei confronti di chiunque osi criticarlo, facendo pesare il suo ruolo nell’economia e il fatto che è chiaro, secondo il noto imprenditore, che l’attacco è chiaramente politico. La pineta storica era una discarica a cielo aperto, tanto vale la pena costruirci sopra 44 appartamenti (stessa linea seguita pedissequamente da alcuni giornali locali). Il primo aggiornamento di stato inizia così:

“Caro Sig. P.,
sono un amico del Sig. G. che mi ha chiesto di utilizzare il mio
profilo, non avendone lui uno proprio in quanto non ha il tempo per dedicarsi ad altre attività, essendo la sua giornata già ricca di impegni legati alla sua attività imprenditoriali. questo è il suo messaggio…”

Sintesi del messaggio: mi prendo cinque minuti dal mio lavoro, sicuramente più gratificante del tuo, per scriverti su un mezzo che non uso perché, appunto, non ho tempo da perdere. Il messaggio continua spiegando le sue ragioni e tentando, goffamente, di stabilire un dialogo con la parte opposta. Scegliere di intervenire in prima persona nell’agone non può che significare che le relazioni si sono indebolite e che non ci sono più quelle dinamiche che permettevano ai problemi di risolversi, ahem, con una stretta di mano. Il sig. G. ci mette la faccia, lo fa a modo suo. Tende la mano, sembra almeno, ma alla fine dedica al suo avversario una poesia:

“LA VITA CHE NON VIVE”
GLI UOMINI PERDONO LA SALUTE PER ROMPERE LE SCATOLE A CHI LAVORA…
POI PERDONO I SOLDI PER GUARDARE IL SUCCESSO DEGLI ALTRI…
GLI UOMINI PENSANO ANSIOSAMENTE AL FUTURO DEGLI ALTRI… E SI DIMENTICANO IL
LORO FALLIMENTO…
GLI UOMINI VIVONO MALE PER LA RICCHEZZA DEGLI ALTRI E NON SI ACCORGONO CHE IL
LORO SEMINATO STA BRUCIANDO…
GLI UOMINI DIVENTANO INVIDIOSI E CATTIVI PUR DI ESSERE PROTAGONISTI…

Parole che potrebbero dimostrare che il sig. G. non concepisce per nulla la possibilità di amare tanto un territorio da volere la sua tutela al di sopra di ogni cosa e non concepisce azioni politiche o di protesta se non per invidia nei confronti del successo altrui.

Potremmo dire al sig. G. che molti di noi lavorano notte e giorno per superare sé stessi e non gli altri, potremmo dire che nessuno di noi ha mai invidiato la sua condizione. Potremmo anche dire comprendiamo il suo stato d’animo ma che dovrebbe dotarsi di spin doctormigliori, addetti stampa che utilizzino il cranio non solo per coniugare il congiuntivo.

Potremmo dirlo, ma non sappiamo come fare, dato che è l’esempio del potere che parla per interposta persona, si relaziona solo con chi non gli dice mai no, che decide di interloquire solo se non viene interrotto.

A noi sembra che, grazie ai mezzi di comunicazione 2.0, le dinamiche del potere debbano inventarsi nuove strategie, non potendo ridurre al silenzio e non potendo pretendere compiacimento. Scrivere per interposta persona su Facebook significa pretendere di forzare un quadrato in uno spazio rotondo, ostentando una superiorità che non vuole scendere a patti, che considera le persone o merci o serve, per cui avere un account su Facebook significa non avere nulla da fare. Eppure il messaggio della lettera sembra andare oltre le parole. Sembra tentare di ribadire la volontà di controllo che non può esserci (almeno non in maniera così goffa e feudale) sui nuovi mezzi di comunicazione. Noi ci confrontiamo, urliamo, ci offendiamo, ma sicuramente non obbediamo più.

Licenziati dalla crisi. Ovvero, la scomparsa delle responsabilità.

 [questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Siderlandia]

La crisi ci obbliga ad assumerci delle responsabilità. Rimbocchiamoci le maniche, stringiamo la cinghia, asciughiamoci il sudore e siamo pronti a subire aumenti e tagli, attacchi al sistema di diritto e riforme antidemocratiche. La crisi chiama e ogni cittadino è tenuto a rispondere, per il bene dell’Italia, dell’Europa, dell’Euro.

Sembra questo il messaggio che da qualche settimana viene lanciato ripetutamente dai media mainstream, attraverso articoli, interviste, grafici, sondaggi. La crisi chiama e tocca a tutti difendere le postazioni dai non ben definiti nemici. Siamo in guerra, sembra, e dei nemici da cui dobbiamo difenderci non sappiamo che i loro nomi: Spread, Bund, Btp, Mercati. Chi sono, come sono fatti, per conto di chi attaccano, solo in pochi fortunati lo sanno.

Pierpaolo Martucci, in un libro del 2006 chiamato “Criminalità economica”, in cui sostiene che i reati economici sono più dannosi per la società rispetto a quelli ordinari, affronta il rapporto tra i primi e l’opinione pubblica: “La riprovazione per un crimine è direttamente legato alla capacità, per un osservatore esterno, di provare empatia per la vittima di un reato – ossia partecipare emotivamente alla sua sofferenza – capacità che, a sua volta, è direttamente proporzionale alla possibilità di identificarsi o meno con quella particolare vittima, per la presenza o la similarità personali o situazionali. Questo processo empatico diviene blando o nullo quando la vittima è impersonale o indeterminata (in quanto il numero dei danneggiati è assai elevato) […]. Ma la peculiarità dei crimini economici può determinare anche il paradosso di una vittima talvolta inconsapevole: si pensi ai consumatori danneggiati […] dalla pubblicità ingannevole…”.

Se estendiamo il senso delle parole dell’autore, il criminale economico non fa schifo quanto uno scippatore perché nella maggior parte dei casi non ha volto.

Accostare crisi e criminalità economica, se a prima vista può sembrare una forzatura, in realtà, dal punto di vista dei risultati, sembra la stessa cosa. I risparmiatori della Parmalat hanno perso i loro soldi così come i cittadini italiani stanno perdendo la loro capacità di acquisto. La differenza è minima, il senso è lo stesso. Eppure la crisi fa più danni, pare, perché la maggior parte dei tagli li subiscono i lavoratori licenziati, i pensionati, i disoccupati che vedono, sempre più, peggiorare la loro situazione economica per “colpa della crisi”. Licenziati per la crisi, bancarotta per la crisi sono concetti volutamente vuoti che servono, magari inconsapevolmente, ad allontanare sempre più la percezione del rapporto tra causa ed effetto, quindi la consapevolezza della responsabilità, di quanto accade. In poche parole: il licenziato non conosce la faccia di chi lo licenzia, e spesso questa condizione viene raccontata come ineluttabile necessità immodificabile da qualsivoglia azione umana.

Le dinamiche economiche non hanno nulla di naturale, i mutui non si trovano in natura, nemmeno i buoni del tesoro e gli indici di borsa. Queste cose non accadono, non esistono senza che almeno un essere umano li determini. Eppure tra la responsabilità di quanto accade e la narrazione del fatto ci passa la volontà di rendere chiare le dinamiche. Lo Spread è impersonale anche se si scrive con la lettera maiuscola, ma dietro di esso ci sono scelte, azioni, parole, che hanno una faccia e un nome.

Confuse, le vittime non sanno con chi prendersela e, rese esasperate le loro vite, seguiranno il primo dito puntato.

Effetto Report

La trasmissione della Gabanelli è appena finita. Il tema è uno dei più comunicabili possibili: i cellulari forse fanno venire il tumore. Un argomento che richiama paure e sospetti, concetti che in fondo in fondo tutti noi pensiamo, ma di cui nessuno ha avuto mai il coraggio di esprimere. Al di là del fatto che le onde elettromagnetiche facciano male (sicuro) e quanto (dato non certo, ma io a casa non ho nulla collegato col wifi), non possiamo che associare il limite di banda raggiunto dal sito Disinformazione subito dopo la fine della puntata della trasmissione di RaiTre ad un atteggiamento stimolato dagli argomenti discussi. L’inchiesta della Gabanelli sembra non essere stata appresa passivamente, ma ha sollecitato la necessità di apprendimento.

Ci chiediamo se questo accade anche con il pubblico di Porta a Porta.

Roma 15 ottobre: il ritorno dei nichilisti di Lebowsky

Visto che tutti dicono qualcosa di estremamente intelligente riguardo la manifestazione di sabato scorso, dico anch’io la mia. Non tanto perchè posso davvero contribuire alla discussione con pensieri davvero intelligenti o perspicaci, ma solo perchè della Big Conversation fa parte pure Officina.

Innanzitutto a tre giorni dalla manifestazione tutti si affannano a ripetere che non cadranno nella trappola di parlare degli scontri, ma solo dei contenuti della manifestazione. Un’affermazione così tanto ripetuta che alla fine tutti parlano di cosa non devono parlare e nessuno parla di quello che si propone di fare. Un casino, eh?

Repubblica (of course) ha intervistato un nero (incappucciato) che ha confessato come si muovono e dove si sono addestrati. Un precario di trentanni che racconta per filo e per segno le strategie e le tattiche di guerriglia urbana: un bignamino del manuale Marighella. Un articolo che contribuisce a rappresentare quanto successo come se fosse un attacco pianificato e premeditato, quindi accendendo dentro di noi, la lucina della possibilità che non sia finita sabato, che ci siano organizzazioni che vogliono la violenza e che la praticano con estrema lucidità. A parte il fatto che gli autori del pezzo (Bonini e Foschini) sono riconosciuti come giornalisti che riescono ad accedere a notizie, per così dire, “riservate” (non ho detto servizi, mica ho detto servizi, qualcuno ha capito servizi?), la diffusione di articoli del genere non fanno che generare confusione, tensione e quel sentimento vicino al “te l’avevo detto io che c’è qualcosa che non va”. La sensazione che ci sia un complotto (polizia disordinata, colonne armate addestrate, volontà di disturbare il corteo pacifico) ha come unico risultato l’ulteriore disaffezione alla pratica della partecipazione. Quindi sarebbe più responsabile parlare di quanti sono stati a Roma (a proposito, qualcuno sa in quanti erano i manifestanti?) e perchè si sono ritrovati in tanti. Il movimento ha una sua visione politica che viene costantemente messa in ombra dalla nostra inclinazione verso tutto ciò che è pruriginoso e poco accattivante: meglio vedere una camionetta bruciare che stare mezz’ora ad ascoltare un comizio di precari.

Quindi c’è il racconto dei cosiddetti black bloc, un racconto falsato, già dalle premesse, perchè non esistono “i” black bloc, semplicemente perchè con quei termini si descrive un modo di stare nella manifestazione. Sarebbe un po’ come chiamare un calciatore “fuorigioco”. Questo attiene alla naturale propensione verso la semplificazione: ammassare più concetti nello stesso significato ci mette al riparo dal dubbio e da quanto non conosciamo.

Proprio quello che non conosciamo, ci fa paura. Un migliaio di ragazzi incappucciati e addestrati marciano su Roma per metterla a ferro e fuoco. Chi sono? Cosa vogliono? Perchè lo fanno? Chi c’è stato racconta che era evidente che non erano lì per manifestare un disagio o una preoccupazione, ma solo per distruggere. “Sono proprio brutti, sono tipi strani”. Il primo pensiero va agli infiltrati, ma poi, fatti due conti non avrebbe senso. La polizia è la prima ad essere incazzata con il governo che abbiamo. Eppure ci sono frange di giovani che vivono ai bordi della società, senza futuro e con un sistema di valori di riferimento che rasenta il nichilismo. “Sembrano ultras” dice qualcuno. Alcuni lo sono per certo. La conferma forse potrebbe essere la scritta ACAB sul furgone incendiato. Rimane in tutto questo un senso di vago disagio, una spalla scoperta alla propaganda fangosa delle destre. Una spalla che ci siamo scoperti da soli perchè abbiamo abbandonato il lavoro sociale, forse, stare per strada e nei quartieri, affrontare con gli ultimi la vita quotidiana, costringendoci a raccontarli come fossero i nichilisti del film “Il grande Lebowsky”.

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Eppure, siamo costretti a farlo.

Vendola, Jobs, e le ninfomani cristiane

Scattata da Frankie Hi Nrg MC

Parlare del fattaccio di Sel Roma è un po’ come fare commenti sulle camicie di Formigoni. Non si riuscirebbe a scrivere nulla che non avesse il gusto di “l’avevo detto io”. Siccome però nelle camicie di Formigoni nessuno ripone le speranze che gli orfani di Bertinotti ripongono in Vendola & friends, il fatto merita almeno una ripassata generale.

Muore Jobs. Nonostante sia stato quello che ha prodotto i marchingegni più fighi e più costosi della storia della tecnologia, tutta la rete si riempie di “Stay hungry, stay foolish”. I social network, da dispositivi omologanti e persuasivi quali sono, generano una sorta di lutto 2.0. Tutti a piangere la morte di Jobs: per un giorno intero questo diventa il fatto più discusso, postato, taggato, twittato del mondo.

Ieri sera Roma si riempie, a detta dei romani, di manifesti neri di Sel, in cui il simbolo del movimento di Vendola viene storpiato nella mela della Apple. Con 7 giorni di ritardo, Sel Roma fa stampare e affiggere i manifesti. Immaginiamo già che l’idea sia partita nel momento in cui i dirigenti locali si sono accorti che non potevano non sfruttare l’occasione per farsi un po’ di pubblicità (e già, la lunga coda). Solo che la tipografia è ingolfata di manifesti e prima di martedì/mercoledì non può. Vabbene, fa niente, aspettiamo.

Affissi i manifesti, si scatena il putiferio. La rete italiana oggi è dedicata a questo. Almeno, una certa rete, perchè gli altri lavorano e su Facebook ci vanno la sera tardi. Scatta il passaparola. Nel giro di pochissimo tempo (alle 12:41, ora di Parigi) sul profilo Facebook di Vendola compaiono le scuse ufficiali:

Il genio di Steve Jobs ha cambiato in modo radicale, con le sue invenzioni, il rapporto tra tecnologia e vita quotidiana. Tuttavia fare del simbolo della sua azienda multinazionale – per noi che ci battiamo per il software libero – un’icona della sinistra, mi pare frutto di un abbaglio. Penso che il manifesto della federazione romana di SEL, al netto del cordoglio per la scomparsa di un protagonista del nostro tempo, sia davvero un incidente di percorso. Incidente tanto più increscioso in quanto proprio in questi giorni nella mia regione stiamo per approvare una legge che, favorendo lo sviluppo e l’utilizzo del software libero segna in modo netto la nostra scelta.

Non solo, ma Quink, il geniale sito di adbuster baresi, moooooooolto vicino a Vendola, fa partire una serie di parodie chiamata SELcrologio. I più maligni dicono che non solo questo non sarà un inciampo per il movimento vendoliano, ma sarà addirittura un’occasione da sfruttare.

(Pensare che sia stato studiato strategicamente a tavolino mi pare troppo. Ma bravi coloro che gestiscono la comunicazione che hanno immediatamente riparato l’errore, anche in maniera simpatica.)

Rimane un fatto però, che non è roba da spin e da social media specialist. Steve Jobs è stato un imprenditore che ha avuto la fortuna di vendere oggetti/feticci di cui nessuno aveva bisogno ma di cui tutti hanno sentito la necessità. Arrivare ad adattare un simbolo politico a quello di un’azienda significa considerare il primo più debole del secondo. Immaginate che Andreotti potesse mai adattare il simbolo dello scudocrociato a quello della Fiat?

No.

Infatti.

Se la mitologia simbolica dei dirigenti romani di Sel è così debole da consentire che il proprio logo (cfr: logos, pensiero) si adattasse a quello della Apple, potrebbe essere che i contenuti politici a cui fanno riferimento non sono così forti e radicati. Forse è la politica liquida, ma a me viene in mente il movimento della Ninfomani Cristiane che si propone di sfogare i propri istinti solo nel talamo coniugale ma comunque nel nome di Gesù.

L’origine del mondo la fine di Berlusconi

La notizia è di qualche giorno fa: sul simbolo del Pdl non c’è più il nome di Berlusconi. Coloro che hanno importato la tradizione di giustapporre al simbolo del partito il nome del leader di riferimento (Udc – Casini, Fli – Fini, Sel – Vendola, Idv- Di Pietro, Pd – ???) sono stati i primi a levarlo, in sordina, zitti zitti, in un momento di grave crisi. Questo gesto, lungi dall’essere semplicemente un motivo di restyling del partito, è la dimostrazione inconfutabile che l’era Berlusconi volge al termine. Definitivamente. E bisogna levarsi davvero il cappello davanti a coloro che hanno preparato la strategia per la sua definitiva uscita di scena. Perchè lui esce di scena e non come una vittima, ma come un peto, come la parolaccia risorsa ultimo del comico che non fa ridere. Il bucio de culo della politica italiana.

Se il nome “Berlusconi” non è più trainante lo si deve ad una martellante campagna di comunicazione che ha sradicato le origini del suo successo. Attraverso una concatenazione di eventi più o meno fortuiti, dal 2009 ad oggi, con un’azione di cecchinaggio mediatico i simboli su cui fondava il successo e il consenso Berlusconi sono stati abbattuti uno dopo l’altro. In particolare uno, che è poi il simbolo dell’era che (speriamo) sta volgendo al tramonto. Speriamo, perchè i cani rimangono fedeli al padrone anche dopo che questi muore.

I fatti sono questi: una continua esposizione sui media per argomenti che non hanno nulla a che vedere con la politica reale raccontano di un Berlusconi dedito alle feste e alle belle donne e che esse erano il passpartou per ricevere in cambio favori di ogni tipo. Ti serve un appalto, portagli una fica. Vuoi essere eletto al Consiglio Comunale, portagli una fica. Per due anni, in maniera ripetuta, assillante, il nostro immaginario è stato per ovvi motivi contaminato dalle notizie riportate da Repubblica e da L’Espresso che dipingevano in sostanza un Premier vizioso ma soprattutto incapace di esserlo, data la sua presunta impotenza e la sua, presunta, ignoranza sul fatto che le giovani donne che affollavano le sue cene fossero, in realtà, pagate. Escort a sua insaputa, giusto per fare una citazione.

Ebbene, se il carisma di Berlusconi è fondato sulla figura di maschio alfa, di imprenditore che si è fatto da solo, di macho, di presidente di una squadra di calcio vittoriosa in Europa e nel mondo, immaginarlo alle prese con la pompetta o con le iniezioni, o con vari stratagemmi per tenere alzata la bandiera della virilità, è più distruttivo che sapere che i soldi per la costruzione di Milano 2 vengono dalla mafia.

Lui ha costruito il suo successo lavorando con sondaggisti e con operatori della comunicazione che dal niente hanno costruito un impero, colonizzato la vita degli italiani, imposto modi di dire e di fare, dettare mode, costruire miti. La sua sconfitta non poteva che venire dallo stesso lato, dal lato più protetto, dal lato che, probabilmente non ha mai pensato di difendere perchè arrogantemente troppo sicuro di sè e dei dirigenti di Mediaset. Berlusconi è sconfitto definitivamente non perchè l’opposizione inesistente sia stata in grado di costruire un’alternativa credibile ma perchè il velo di Maya è stato squarciato da mille gocce d’acqua. Se non è capace di avere un’erezione, non può mantenere nessuna promessa, non è credibile.

La tattica e la strategia messi in campo per contrastarlo hanno vinto perchè hanno utilizzato i suoi stessi strumenti contro la narrazione che aveva fatto di sè e che è stata il suo cavallo di battaglia da prima del 94 ad oggi. Egli ha perso perchè nel gioco delle associazioni mentali lui sta con le barzellette e le battutine.

Ora che la nave affonda e i topi sono i primi a scappare, possiamo dire che alla fine l‘origine del mondo è stata la fine di Berlusconi.

No? Se dico Berlusconi, a voi cosa viene in mente?